venerdì 3 maggio 2013

12. LA SORELLA ADELAIDE RICORDA IL FRATELLO ANTONIO



da sinistra: Vincenzo, amichetta, Antonio, Anna, Adelaide (in alto), amichetta


Nino da bambino, da ragazzo, era stato sempre buono, sensibile, affettuoso, mite, timido e crebbe così; così in casa, a scuola. Cercò di vincere la sua timidezza con grande sforzo e vi riuscì con gli anni.
Caro fu in lui il ricordo dell'infanzia.
Da giovane fu sempre ugualmente buono con la famiglia, con tutti.
In famiglia era come noi; i soliti discorsi, le solite cose, le battute di spirito, la nostra vita, le passeggiate, non mostrava affatto quello che era, ma noi lo comprendevamo. E tale era sempre con le persone, con gli amici.
Durante il giorno passava molte ore nel suo studiolo intento nel suo lavoro; nei primi pomeriggi lo accompagnavo spesso per lunghe passeggiate per la campagna.
Durante i mesi estivi godeva con la famiglia e i parenti la villeggiatura a Pontegrande, al nostro villino, e andava e veniva da Catanzaro quasi tutti i giorni.
Educato, corretto, docile in famiglia, amoroso specie per la madre ammalata da tempo, che curava, e che lo seguì dopo 25 giorni nella tomba. Era un tipo gioviale. Riceveva i suoi amici, i poveri, tutti con trasporto, con tenerezza, con affetto; andava loro incontro con passo sicuro, altero, sorridente, tendendo loro le braccia, le mani, con gesti allegri.
Nella sua sensibilità sentiva e amava molto la musica e la poesia e tutte le manifestazioni dell'arte, della natura.
Recitava a volte con grande entusiasmo le poesie dei grandi poeti e le cose più grandi e belle che lo trasportavano in un mondo di sogni.
A volte stava come trasognato, assente.
Era distinto e nello stesso tempo povero nel vestire, in tutto e sempre modesto nella persona e illibato. Non teneva nulla per sé dei suoi guadagni, ma li regalava a chi lui credeva più opportuno.
In famiglia cercava di evitare lavoro agli altri prodigandosi, sostituendosi.
Era forte d'animo e coraggioso.
Cercava di mettere pace dovunque occorreva sempre nelle difficili circostanze della gente. Si batteva per la giustizia e richiamava al dovere le persone che ne avevano bisogno. Sicuro e amoroso nel riprendere.
Una volta durante una passeggiata campestre (io ero con lui) un uomo, camminando a lato della strada, bestemmiava la Madonna; lui, mettendogli amorosamente una mano sulla spalla, gli disse in dialetto catanzarese: “Ca poi quando morimu a chiamamu a Madonna”. E così in altri casi. Riceveva in casa sempre poveri, abietti, aiutandoli, servendoli lui stesso nel mangiare e illuminandoli nello spirito.
Nascondeva tutte le sue virtù e anche la sua fede. Parlava poco di sé e delle sue cose. La sera, prima di addormentarsi, lo vedevo intento a leggere libri santi come meditazioni, Imitazione di Cristo, Vangelo e altro. Quando parlava delle cose di Dio o schiariva dei dubbi a persone era veramente edificante.
Prima della sua conversione diceva lui stesso di essere ateo.
Una volta entrando io nella sua stanzetta dove egli dormiva e vedendo appeso al muro sul suo letto un calendario con una figura qualunque, pensai di toglierlo e di sostituire a quello il quadro del Sacro Cuore e lo appesi. Quando lui venne da fuori, rimise il calendario al posto di prima e levò così il quadro del Sacro l'Cuore. Mi dispiacqui e durante il pranzo, a tavola, glielo dissi formulando dentro di me, nel frattempo, questa preghiera: “Fa, Signore, che come lui ti ha tolto, Tu gli entri nel cuore”. E così fu.
Dopo convertito, Nino ebbe grande devozione al Sacro Cuore, tanto da esporlo in casa alla vista di tutti e di parlarne tanto con grande amore nel suo diario, come si legge nella commemorazione fatta da Galati, dove pure dice dell'avvenuta conversione in seguito a malattia e altro.
Dico di una prima sua malattia, la stessa dell'ultima e che pure lo aveva ridotto agli estremi. Era allora giovane. Era in complesso di buona salute fisica, tranne che non stava bene di fegato e che lui non aveva pensato a curare.
La sua conversione cominciò con la devozione alla Madonna, facendosi nel lontano mese di maggio del 1932 la comunione ogni giorno con una pratica di vita cristiana sempre più intensa e conformando la sua vita a quella vita. E, come si rileva dai suoi scritti, fu veramente pieno dello Spirito di Dio.
Aveva avuto il dono del consiglio e a tutti indicava la buona e giusta via.
S’era tanto affezionato a una nostra antica donna di servizio che ci aveva cresciuti e accuditi. Rosa si chiamava ed era di capacità modeste, ma buona e affettuosa, specie con Nino, e da vecchia l’assistette fino alla morte. Morte che tanto lo addolorò e di lei ha serbato alcuni indumenti che ancora si conservano nella sua libreria. Il ricordo di Rosa era unito ai ricordi dell'infanzia che Nino ha portato con sé durante la sua vita. Nino ha sofferto tanto moralmente in vita. E anche per l'allontanamento di mia sorella, che si è sposata, ha tanto sofferto.
L'androne e la casa al primo piano
Nel 1948 aveva dato inizio alla fondazione di un circolo di cultura “Studium” e per due anni, fino all'ultima sua malattia, venivano i giovani per lo studio, sperando di poter continuare a fare andare avanti quest'opera, ma tutto si è fermato.
Nello studio di mio padre, dove in ultimo lo abbiamo portato, vedeva dal letto un pezzo di cielo attraverso il balcone ed esclamava “Come è bello il cielo; sono contento che da qui lo veda qualche persona amica”, che veniva a trovarlo; “Signore, com'è bello il paradiso”. Durante la sua vita a volte di giorno e anche di notte aveva dei trasporti e spesso esclamava: “Signore, Signore” e a volte: “Quando mi libererai da questo corpo di morte?”.
Si intratteneva volentieri a volte con la nostra donna di lavoro e diceva di distrarsi dalle fatiche parlando con lei. La curava, cercando di farla lavorare di meno, la riguardava. E lei si era resa conto delle virtù di lui.
Nino era sofferente di cuore. Una enterocolite come quella avuta a 26 anni (quando ancora non era credente) fu contraria ad ogni cura e dopo sofferenze e rassegnazione alla volontà di Dio, grave nel delirio la sera prima della morte, la mattina con un filo di speranza, dopo aver richiesta dell'acqua che gli è rimasta in gola perché non poteva ingoiare più, e dopo la estrema unzione che mia sorella gli ha fatto pervenire e che lui ha accolto con un sorriso, (scambiato) forse per quel frate che aspettava e desiderava vedere, o forse nel desiderio di far la comunione, sorriso che poi divenne mestizia. E con la mano nelle mani di mio padre (così mi hanno detto) dopo averci chiamati tutti prima per darci l'ultimo addio, ha piegato umilmente e dolcemente il capo alla morte. Mia madre non ha saputo nulla della sua morte. Era da anni ammalata, in certo modo paralizzata, e si è pensato non dirle niente; ma pure certe volte notando la mancanza di Nino cercava di domandare. Strazio e dolore in famiglia e tanto, per mio padre che, pure non credente, la morte del figlio e la sua vita lo aveva fatto meditare.
Nino nella bara mostrava il volto chiaro, radioso di luce, sorridente, quasi sprezzante della morte. Per parecchio tempo durò, dove è morto, un soave profumo, di rose non so e mio padre a volte mi chiamava per dirmi: “Vieni a sentire il profumo di tuo fratello”. Si noti che fiori non ce ne erano stati in quello studio.
Abbiamo fatto dire le messe gregoriane dal parroco Ferrari; in quel mese il parroco ci veniva a trovare sempre; un giorno ci raccontò il sogno che aveva fatto in una di quelle notti; il seguente: “Un viale lungo, fiancheggiato da alberi con un orizzonte bellissimo; da lontano, in fondo veniva un grande angelo con le ali d'oro; a quella vista il parroco gli ha domandato: ‘chi sei tu, l'angelo Michele, Gabriele, chi sei? L'angelo gli ha risposto: ‘Io sono quell'anima per cui voi state dicendo le messe’. Allora sei l'avvocato Lombardi? ‘Per l'appunto’. E che debbo dire ai tuoi? ‘Dite che sono salvo, che sono in cielo’ ”.
E così altri sogni, altre coincidenze che fanno pensare.
Ci sono state, per intercessione di Nino, anche delle grazie fatte ai suoi amici e conoscenti e a persone anche da lui sconosciute. Nel corso della sua malattia, intuendo la sua prossima morte, soleva ripetere dei versi e delle parole riferite al suo stato e piene di nostalgia. Io negli ultimi tempi gli parlavo tanto di tutte le cose, pensando che poi non gliele avrei potuto più dire; e negli ultimi giorni, vedendolo soffrire affannosamente, io accanto al suo letto gli ho detto: “Nino come vorrei essere io al tuo posto”; e lui in dialetto: “Ca tu non si megghiu e mia”. Soffriva tanto. Durante la sua vita terrena amava fare delle lunghe passeggiate, quasi sempre verso Pontegrande, dove avevamo il nostro villino, che a lui piaceva tanto, e verso Sant'Elia, più su. Era anche necessario per lui per riposarsi dalle sue fatiche e rafforzarsi nello spirito; andava quasi sempre con me e tante volte con i suoi amici. Gli piaceva pure andare spesso al cimitero e fare quella strada. Non era tanto favorevole di andare per le vie della città, se non per necessità. Partiva di tanto in tanto per Roma per le sue cose, ma aveva il pensiero di ritornare, specialmente per mamma che sapeva ammalata e che lo voleva vicino.
Si recava tutte le mattine, alle 7:30 in chiesa e specialmente alla chiesetta di Sant'Anna a noi vicina e faceva tutti i giorni la Santa Comunione.
Amava assai la natura, le albe, i tramonti, le notti lunari, che le sere d'estate stava serenamente a contemplare. Faceva dei versi e tra le sue poche poesie ce n'è una: “Notte di settembre”, che, dopo la sua morte, specialmente papà ripeteva sempre con nostalgia nel suo grande dolore. Quando gli si chiedeva su qualche cosa o perché questo e quest'altro, lui o rispondeva subito o stava a pensare e quando aveva trovato la soluzione la spiegava. Era stato sempre portato per la matematica.

 

Quando Nino era commissario all'orfanotrofio “Rossi” e le cose non andavano bene, ha reagito e rimesso le cose a posto. Era ben voluto e stimato.
A Bellavista (Nino aveva istituito) un ricovero per ciechi: aveva adattato una stanza.
Non si lamentava nelle malattie o avversità.
Da giovane aveva avuto i suoi affetti, i suoi amori, le sue simpatie.
Distratto a volte, gli capitavano degli aneddoti curiosi.
Era molto semplice e a volte ingenuo e sorridente come un bambino.
Fu alla San Vincenzo e portava sempre addosso l'abitino della Madonna del Carmine.
Recitava tutti i giorni, specie mi pare di sera, il Rosario.
Nella malattia che ha avuto a 26 anni gli avevano detto che la notte di Capodanno doveva morire e lui, credo un po' impaurito, ma calmo e sereno, con noi familiari tutt'attorno nella stanza, aspettava la morte. Allora non era credente e a mia sorella che si appressò a lui per invitarlo ai sacramenti, fece cenno di no col capo, ma poco dopo le disse: lo faccio per te. Poi è uscito fuori pericolo ed è guarito perché doveva con più distanza morire convertito.
Erano pochi i suoi guadagni che egli non teneva per sé. Prima di morire aveva messo da parte lire 1000 per lasciarle ad Antonietta, la donna di lavoro.
Un giorno, di pomeriggio, durante una nostra passeggiata, io e Nino, verso Siano, un giovane giornalaio gesticolava nell'intento di buttarsi dal ponte. Io glielo indicai a Nino e lui subito si recò sul posto e con buone maniere e buone parole lo convinse a desistere dall'idea e lo fece venire con noi. Questo ed altri episodi.
Era coraggioso e io alle volte temevo che gli potesse capitare male durante qualche litigio di persone, dato che lui si sarebbe certamente fatto avanti per stroncare la lite.

Quattro  liriche:
1.      Inghirlandata di memorie spente
nate nel sole, bianca nella pace,
guardo la tomba tua ora silente.

2.      Candido giacinto, simile alla mite aura di primavera! Dammi l'amore, la vita!
Cosa sei grata memoria? Scorri e muovi il mio sangue, come la brezza sull'onda,
quando la increspa. Non questa è forse la vita? Una brezza? Un incresparsi di onde e di sangue? Bacio che sfiori e non apporti?

3.      O piccolo raggio di luna che entri nel buio della mia stanza e ti distendi accanto al mio capezzale! La mia anima è inondata di tristezza; tu un poco la ristori. La mia anima anela la vita. Dove può la mia anima trovare la vita? Vita! Vita! Mio Dio: ecco la mia preghiera di me mortale! E ti guardo, o piccolo raggio di luna, che entri nel buio della mia anima e mi rischiari, sebbene lontana incerta una vita” (Catanzaro, 20 dicembre 1920).

4.      O notte di settembre, o bel  candore
de la placida luna! Un giorno amai
i notturni silenzi: e al mite albore
di questa luna, tacito, posai!

E, disciolto l'enigma del dolore,
poi che il piacere nel dolore tentai,
io nei silenzi, onde fu vinto il core!
fanciullo invitto, l'animo beai.

Redento alfine dai tuoi gorghi oscuri,
dalle tue voglie accidiose e lente,
rendimi, o  vita a cieli alti e più duri.

Quale gli antichi Iddi dell'oriente,
che accesi di desir calmi e sicuri,
circondati di ciel, fruisce la gente.

(Su un quaderno che porta la data 1918).

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