da sinistra: Vincenzo, amichetta, Antonio, Anna, Adelaide (in alto), amichetta |
Nino da bambino, da ragazzo, era
stato sempre buono, sensibile, affettuoso, mite, timido e crebbe così; così in
casa, a scuola. Cercò di vincere la sua timidezza con grande sforzo e vi riuscì
con gli anni.
Caro fu in lui il ricordo
dell'infanzia.
Da giovane fu sempre ugualmente
buono con la famiglia, con tutti.
In famiglia era come noi; i soliti
discorsi, le solite cose, le battute di spirito, la nostra vita, le
passeggiate, non mostrava affatto quello che era, ma noi lo comprendevamo. E
tale era sempre con le persone, con gli amici.
Durante il giorno passava molte ore
nel suo studiolo intento nel suo lavoro; nei primi pomeriggi lo accompagnavo
spesso per lunghe passeggiate per la campagna.
Durante i mesi estivi godeva con la
famiglia e i parenti la villeggiatura a Pontegrande, al nostro villino, e
andava e veniva da Catanzaro quasi tutti i giorni.
Educato, corretto, docile in
famiglia, amoroso specie per la madre ammalata da tempo, che curava, e che lo
seguì dopo 25 giorni nella tomba. Era un tipo gioviale. Riceveva i suoi amici,
i poveri, tutti con trasporto, con tenerezza, con affetto; andava loro incontro
con passo sicuro, altero, sorridente, tendendo loro le braccia, le mani, con
gesti allegri.
Nella sua sensibilità sentiva e
amava molto la musica e la poesia e tutte le manifestazioni dell'arte, della
natura.
Recitava a volte con grande
entusiasmo le poesie dei grandi poeti e le cose più grandi e belle che lo
trasportavano in un mondo di sogni.
A volte stava come trasognato,
assente.
Era distinto e nello stesso tempo
povero nel vestire, in tutto e sempre modesto nella persona e illibato. Non teneva
nulla per sé dei suoi guadagni, ma li regalava a chi lui credeva più opportuno.
In famiglia cercava di evitare
lavoro agli altri prodigandosi, sostituendosi.
Era forte d'animo e coraggioso.
Cercava di mettere pace dovunque
occorreva sempre nelle difficili circostanze della gente. Si batteva per la
giustizia e richiamava al dovere le persone che ne avevano bisogno. Sicuro e
amoroso nel riprendere.
Una volta durante una passeggiata
campestre (io ero con lui) un uomo, camminando a lato della strada, bestemmiava
la Madonna; lui, mettendogli amorosamente una mano sulla spalla, gli disse in
dialetto catanzarese: “Ca poi quando morimu a chiamamu a Madonna”. E così in
altri casi. Riceveva in casa sempre poveri, abietti, aiutandoli, servendoli lui
stesso nel mangiare e illuminandoli nello spirito.
Nascondeva tutte le sue virtù e
anche la sua fede. Parlava poco di sé e delle sue cose. La sera, prima di
addormentarsi, lo vedevo intento a leggere libri santi come meditazioni,
Imitazione di Cristo, Vangelo e altro. Quando parlava delle cose di Dio o
schiariva dei dubbi a persone era veramente edificante.
Prima della sua conversione diceva
lui stesso di essere ateo.
Una volta entrando io nella sua
stanzetta dove egli dormiva e vedendo appeso al muro sul suo letto un
calendario con una figura qualunque, pensai di toglierlo e di sostituire a
quello il quadro del Sacro Cuore e lo appesi. Quando lui venne da fuori, rimise
il calendario al posto di prima e levò così il quadro del Sacro l'Cuore. Mi
dispiacqui e durante il pranzo, a tavola, glielo dissi formulando dentro di me,
nel frattempo, questa preghiera: “Fa, Signore, che come lui ti ha tolto, Tu gli
entri nel cuore”. E così fu.
Dopo convertito, Nino ebbe grande
devozione al Sacro Cuore, tanto da esporlo in casa alla vista di tutti e di
parlarne tanto con grande amore nel suo diario, come si legge nella
commemorazione fatta da Galati, dove pure dice dell'avvenuta conversione in
seguito a malattia e altro.
Dico di una prima sua malattia, la
stessa dell'ultima e che pure lo aveva ridotto agli estremi. Era allora giovane.
Era in complesso di buona salute fisica, tranne che non stava bene di fegato e
che lui non aveva pensato a curare.
La sua conversione cominciò con la
devozione alla Madonna, facendosi nel lontano mese di maggio del 1932 la
comunione ogni giorno con una pratica di vita cristiana sempre più intensa e
conformando la sua vita a quella vita. E, come si rileva dai suoi scritti, fu
veramente pieno dello Spirito di Dio.
Aveva avuto il dono del consiglio e
a tutti indicava la buona e giusta via.
S’era tanto affezionato a una
nostra antica donna di servizio che ci aveva cresciuti e accuditi. Rosa si
chiamava ed era di capacità modeste, ma buona e affettuosa, specie con Nino, e
da vecchia l’assistette fino alla morte. Morte che tanto lo addolorò e di lei
ha serbato alcuni indumenti che ancora si conservano nella sua libreria. Il
ricordo di Rosa era unito ai ricordi dell'infanzia che Nino ha portato con sé
durante la sua vita. Nino ha sofferto tanto moralmente in vita. E anche per
l'allontanamento di mia sorella, che si è sposata, ha tanto sofferto.
L'androne e la casa al primo piano |
Nello studio di mio padre, dove in
ultimo lo abbiamo portato, vedeva dal letto un pezzo di cielo attraverso il
balcone ed esclamava “Come è bello il cielo; sono contento che da qui lo veda
qualche persona amica”, che veniva a trovarlo; “Signore, com'è bello il
paradiso”. Durante la sua vita a volte di giorno e anche di notte aveva dei
trasporti e spesso esclamava: “Signore, Signore” e a volte: “Quando mi libererai
da questo corpo di morte?”.
Si intratteneva volentieri a volte
con la nostra donna di lavoro e diceva di distrarsi dalle fatiche parlando con
lei. La curava, cercando di farla lavorare di meno, la riguardava. E lei si era
resa conto delle virtù di lui.
Nino era sofferente di cuore. Una
enterocolite come quella avuta a 26 anni (quando ancora non era credente) fu
contraria ad ogni cura e dopo sofferenze e rassegnazione alla volontà di Dio,
grave nel delirio la sera prima della morte, la mattina con un filo di
speranza, dopo aver richiesta dell'acqua che gli è rimasta in gola perché non
poteva ingoiare più, e dopo la estrema unzione che mia sorella gli ha fatto
pervenire e che lui ha accolto con un sorriso, (scambiato) forse per quel frate
che aspettava e desiderava vedere, o forse nel desiderio di far la comunione,
sorriso che poi divenne mestizia. E con la mano nelle mani di mio padre (così
mi hanno detto) dopo averci chiamati tutti prima per darci l'ultimo addio, ha piegato
umilmente e dolcemente il capo alla morte. Mia madre non ha saputo nulla della
sua morte. Era da anni ammalata, in certo modo paralizzata, e si è pensato non
dirle niente; ma pure certe volte notando la mancanza di Nino cercava di
domandare. Strazio e dolore in famiglia e tanto, per mio padre che, pure non
credente, la morte del figlio e la sua vita lo aveva fatto meditare.
Nino nella bara mostrava il volto
chiaro, radioso di luce, sorridente, quasi sprezzante della morte. Per
parecchio tempo durò, dove è morto, un soave profumo, di rose non so e mio
padre a volte mi chiamava per dirmi: “Vieni a sentire il profumo di tuo
fratello”. Si noti che fiori non ce ne erano stati in quello studio.
Abbiamo fatto dire le messe
gregoriane dal parroco Ferrari; in quel mese il parroco ci veniva a trovare
sempre; un giorno ci raccontò il sogno che aveva fatto in una di quelle notti;
il seguente: “Un viale lungo, fiancheggiato da alberi con un orizzonte
bellissimo; da lontano, in fondo veniva un grande angelo con le ali d'oro; a
quella vista il parroco gli ha domandato: ‘chi sei tu, l'angelo Michele,
Gabriele, chi sei? L'angelo gli ha risposto: ‘Io sono quell'anima per cui voi
state dicendo le messe’. Allora sei l'avvocato Lombardi? ‘Per l'appunto’. E che
debbo dire ai tuoi? ‘Dite che sono salvo, che sono in cielo’ ”.
E così altri sogni, altre
coincidenze che fanno pensare.
Ci sono state, per intercessione di
Nino, anche delle grazie fatte ai suoi amici e conoscenti e a persone anche da
lui sconosciute. Nel corso della sua malattia, intuendo la sua prossima morte,
soleva ripetere dei versi e delle parole riferite al suo stato e piene di
nostalgia. Io negli ultimi tempi gli parlavo tanto di tutte le cose, pensando
che poi non gliele avrei potuto più dire; e negli ultimi giorni, vedendolo
soffrire affannosamente, io accanto al suo letto gli ho detto: “Nino come
vorrei essere io al tuo posto”; e lui in dialetto: “Ca tu non si megghiu e
mia”. Soffriva tanto. Durante la sua vita terrena amava fare delle lunghe
passeggiate, quasi sempre verso Pontegrande, dove avevamo il nostro villino,
che a lui piaceva tanto, e verso Sant'Elia, più su. Era anche necessario per
lui per riposarsi dalle sue fatiche e rafforzarsi nello spirito; andava quasi
sempre con me e tante volte con i suoi amici. Gli piaceva pure andare spesso al
cimitero e fare quella strada. Non era tanto favorevole di andare per le vie
della città, se non per necessità. Partiva di tanto in tanto per Roma per le
sue cose, ma aveva il pensiero di ritornare, specialmente per mamma che sapeva
ammalata e che lo voleva vicino.
Si recava tutte le mattine, alle
7:30 in chiesa e specialmente alla chiesetta di Sant'Anna a noi vicina e faceva
tutti i giorni la Santa Comunione.
Amava assai la natura, le albe, i
tramonti, le notti lunari, che le sere d'estate stava serenamente a
contemplare. Faceva dei versi e tra le sue poche poesie ce n'è una: “Notte di
settembre”, che, dopo la sua morte, specialmente papà ripeteva sempre con
nostalgia nel suo grande dolore. Quando gli si chiedeva su qualche cosa o
perché questo e quest'altro, lui o rispondeva subito o stava a pensare e quando
aveva trovato la soluzione la spiegava. Era stato sempre portato per la
matematica.
Quando Nino era commissario all'orfanotrofio “Rossi” e le cose non andavano bene, ha reagito e rimesso le cose a posto. Era ben voluto e stimato.
A Bellavista (Nino aveva istituito)
un ricovero per ciechi: aveva adattato una stanza.
Non si lamentava nelle malattie o
avversità.
Da giovane aveva avuto i suoi
affetti, i suoi amori, le sue simpatie.
Distratto a volte, gli capitavano
degli aneddoti curiosi.
Era molto semplice e a volte
ingenuo e sorridente come un bambino.
Fu alla San Vincenzo e portava sempre addosso l'abitino della Madonna del
Carmine.
Recitava tutti i giorni, specie mi
pare di sera, il Rosario.
Nella malattia che ha avuto a 26
anni gli avevano detto che la notte di Capodanno doveva morire e lui, credo un
po' impaurito, ma calmo e sereno, con noi familiari tutt'attorno nella stanza,
aspettava la morte. Allora non era credente e a mia sorella che si appressò a
lui per invitarlo ai sacramenti, fece cenno di no col capo, ma poco dopo le
disse: lo faccio per te. Poi è uscito fuori pericolo ed è guarito perché doveva
con più distanza morire convertito.
Erano pochi i suoi guadagni che
egli non teneva per sé. Prima di morire aveva messo da parte lire 1000 per
lasciarle ad Antonietta, la donna di lavoro.
Un giorno, di pomeriggio, durante
una nostra passeggiata, io e Nino, verso Siano, un giovane giornalaio
gesticolava nell'intento di buttarsi dal ponte. Io glielo indicai a Nino e lui
subito si recò sul posto e con buone maniere e buone parole lo convinse a
desistere dall'idea e lo fece venire con noi. Questo ed altri episodi.
Era coraggioso e io alle volte
temevo che gli potesse capitare male durante qualche litigio di persone, dato
che lui si sarebbe certamente fatto avanti per stroncare la lite.
Quattro liriche:
1. Inghirlandata
di memorie spente
nate nel sole, bianca nella pace,
guardo la tomba tua ora silente.
2. Candido
giacinto, simile alla mite aura di primavera! Dammi l'amore, la vita!
Cosa sei grata memoria? Scorri e muovi
il mio sangue, come la brezza sull'onda,
quando la increspa. Non questa è forse
la vita? Una brezza? Un incresparsi di onde e di sangue? Bacio che sfiori e non
apporti?
3. O
piccolo raggio di luna che entri nel buio della mia stanza e ti distendi
accanto al mio capezzale! La mia anima è inondata di tristezza; tu un poco la
ristori. La mia anima anela la vita. Dove può la mia anima trovare la vita?
Vita! Vita! Mio Dio: ecco la mia preghiera di me mortale! E ti guardo, o
piccolo raggio di luna, che entri nel buio della mia anima e mi rischiari,
sebbene lontana incerta una vita” (Catanzaro, 20 dicembre 1920).
4. O
notte di settembre, o bel candore
de la placida luna! Un giorno amai
i notturni silenzi: e al mite albore
di questa luna, tacito, posai!
de la placida luna! Un giorno amai
i notturni silenzi: e al mite albore
di questa luna, tacito, posai!
E, disciolto l'enigma del dolore,
poi che il piacere nel dolore tentai,
io nei silenzi, onde fu vinto il core!
fanciullo invitto, l'animo beai.
Redento alfine dai tuoi gorghi oscuri,
dalle tue voglie accidiose e lente,
rendimi, o vita a cieli alti e più duri.
Quale gli antichi Iddi dell'oriente,
che accesi di desir calmi e sicuri,
circondati di ciel, fruisce la gente.
(Su un quaderno che porta la data 1918).
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