Catanzaro, 28 novembre1965
Eccellenza
Rev.ma, Le chiedo, innanzitutto, scuse vivissime per la mia mancata risposta
alle sue calde e insistenti richieste di notizie intorno al Sac. Padre Caruso
Francesco. Le posso attestare che Egli fu mio confessore e direttore
spirituale, maestro sicuro, carico di esperienza ascetica e mistica,
quotidianamente provato e saggiato dallo “stimulus” paolino; uomo,
costantemente comprensivo dei limiti e delle cedevolezze umani, fiducioso
nell’inesauribile capacità di ripresa dell’adolescente e del giovine. Non gli
sfuggiva né lo sviluppo delle passioni, né il gioco degli istinti, né la voce e
l’espressione dei sensi: verso il mondo istintivo aveva comprensione serena e
positiva, mai indulgenza che confondesse la linea demarcante tra bene e male.
Il “si si”, il “no no” evangelico non gli impediva l’intelligenza delle
innumerevoli posizioni intermedie, nel cui ballottaggio si svolge l’animo
dell’uomo. Posso dire che devo a lui il mio sacerdozio; non sarei sacerdote,
oggi, senza la guida di lui; nel 1938, a chiusura d’anno scolastico,
concludendosi per me il corso liceale al seminario regionale Pio XI di Reggio
Calabria, sfociai nell’ateismo, perché subii il fascino della filosofia gentiliana.
Mi convinsi, a mio modo, che Dio non esistesse, o per lo meno che Dio non fosse
come lo poneva la concezione cattolica. Si aggiunga la debole, impari difesa di
Dio del testo e del professore del tempo, di fronte alle audaci posizioni
suasive dell’attualismo di Giovanni Gentile e dello storicismo assoluto di B.
Croce, e allora si comprende come io, per errore di prospettazione e di
centralizzazione del problema di Dio, mi allontanai dal Dio cattolicamente
inteso e debolmente “presentato” dall’insegnamento, fatto facilonisticamente,
cioè senza neppur l’ombra dell’avvertenza di un necessario apparato critico.
All’insegnante del tempo, se non mancò la volontà di difesa di Dio,
filosoficamente, venne meno l’esigenza dello studio critico. Pertanto, fui espulso
dal seminario, come ateo, dal Rettore P. Pedàce, gesuita, d’accordo e d’intesa
con l’arcivescovo Mons. Giovanni Fiorentini. Prima dell’espulsione, per due
mesi fui isolato per non turbare la serenità spirituale dei miei compagni, la
maggior parte personalmente impegnata nel dubbio di Dio, e stetti solo in una
stanza, senza vivere più la vita di camerata. Il mio padre spirituale, venuto a
conoscenza della mia crisi, stette muto in un atteggiamento di silenzio
rispettosissimo delle mie nuove posizioni. Mi raccomandò solo “sincerità con me stesso ed onestà
intellettuale nell’indagine”. Non tornando più in seminario, mantenni con
lui un carteggio epistolare che è andato smarrito. Ascoltando le voci
dell’orgoglio, non scrissi più e chiesi, a titolo di curiosità, di avere dei
colloqui, che divennero frequenti, con il Rettore del “Pio X” Padre Iollain,
polacco. Conobbi, poi, il filosofo
convertito, Antonio Lombardi, autore di poderosi libri, autorevoli nel campo
della speculazione. Riammesso al seminario regionale di Catanzaro per il
corso teologico, dopo il permesso chiesto ed ottenuto dal Dicastero competente
di Roma, in via delicata e cauta, fui
continuamente seguito dal filosofo Lombardi e dal padre Caruso, che in giorni
diversi avevano la bontà di salire dalla città per venirmi a trovare. Dopo
l’incendio che distrusse totalmente il Seminario, passai di nuovo al Regionale
di Reggio: qui si fecero più rade le occasioni di dialogo con il mio padre
spirituale, Caruso, ma vennero supplite dai colloqui con l’Arcivescovo Enrico
Montalbetti, mio secondo direttore spirituale. Non avvertii nessun brusco
passaggio, perché, seppur in forma diversa, sostanzialmente la linea Caruso
collimava con quella del sullodato Arcivescovo di santa memoria. Presi messa il
13 giugno 1943, domenica di pentecoste. Era presente padre Caruso, che, subito
dopo la mia ordinazione, mi presentò alcune signore dell’ “Opus Vocationum”, sconosciute anime apostoliche, impegnate nella
silenziosa opera soccorritrice delle vocazioni dei giovani economicamente
disagiati. Continuai, dopo, da sacerdote a confessarmi con lui. Andavamo a trovarlo, dopo la guerra,
all’Istituto delle Ancelle del buon pastore, nella solitaria dimora
dell’altipiano di Pontepiccolo, col filosofo Lombardi ed altri amici
(questi ultimi, pochi, ma inquieti e incerti spiritualmente). Non si andava per fargli visita, ma perché
se ne aveva bisogno: e vi si andava singolarmente e privatamente, spinti ognuno
dai propri bisogni dell’anima. Ricordo che una volta - io già sacerdote -
Padre Caruso mi chiese di ascoltare la sua confessione. Ma io mi rifiutai
decisamente, diventando rosso e pallido. Ma egli insistette persuadendomi che
io, rifiutando, indulgevo all’orgoglio. E così ascoltai la confessione di lui:
mi sentii confuso, ma ebbi la fortuna di sapere come vivono davvero gli uomini
degni e santi: ne tornai rifatto. Credo che uno dei tanti mezzi, rari, per
essere meno cattivo sia quello di confessare un “santo”. Inchiodato al
confessionale, egli recuperava a Cristo ora la mente ora il cuore, ora il
sentimento, ora la fiducia. Sebbene cagionevole di salute, tuttavia non faceva
pesare ad alcuno i suoi malesseri che non gli lasciavano mai un momento di
quiete o di pausa. Devo a lui la mia sanità fisica del mio organismo, perché
con denaro suo e con le maniere più belle mi forniva i più indicati rimedi
terapeutici, come i fermenti lattici , altri ricostituenti ecc….. È impossibile dire della sua preoccupazione
della salute del corpo e dell’anima dei suoi diretti spirituali. Come dimenticare la sua presenza, dopo
pranzo, in mezzo a noi ginnasiali!... Ricordo ancora benino il gioco degli
scacchi, imparato da lui; nelle varie perdite, nei vari movimenti, nelle
vittorie intercalava un’idea, un’alta idea di bene, così, giocando. Oggi non
gioco più a scacchi o ai birilli: non c’è più lui. Quanto sarebbe bello
giocare, specie coi santi. Io chiedo scusa e perdono. Mi creda, dev.mo
Sacerdote penitenziere.
P.S.
Ci sono molte altre cose. Ma chi ha il tempo! Me le porterò con me nell’aldilà!
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