venerdì 3 maggio 2013

15. L'IGNOTO IDDIO o FILOSOFIA DELLE ROVINE (OPERA INEDITA DI ANTONIO LOMBARDI)



 

L'IGNOTO IDDIO
(Filosofia delle rovine)

PARTE PRIMA
I.                   L'armistizio
II.                L'esodo
III.             Pontegrande
IV.             Le rovine
V.                I sepolcri

PARTE SECONDA
I.                Primavera
II.             La guerra
III.            Fantasia
IV.            Il misticismo

PARTE TERZA
I.                   I popoli
II.                Cassino
III.             Afa
IV.             Il tempo
V.                Il Natale
VI.             Il pensiero
VII.          Le notti
VIII.       In ipso (in eo sumus)
IX.             Aurore
Questo scritto si andò formando lentamente e naturalmente tra continue riflessioni e ripensamenti, nel senso che va dall'agosto 1943 a tutto l'anno 1946; cioè il tempo che vide tante rovine e oppressioni ai popoli.


PARTE PRIMA


I.      L'ARMISTIZIO

1.      Pontegrande, 14 settembre 1943
L'armistizio con i nostri nemici non è valso a dare la pace all'Italia. Poche volte si è abbattuta su un popolo una sciagura sì grande. Ben più fortunata la Francia. Non tutto il suolo francese è stato occupato dal nemico, e lo stesso territorio invaso conserva in gran parte una parvenza di tranquillità.
Non così l'Italia. L'Italia arresasi senza discrezione, spettatrice impotente, umiliata, oppressa, non è più che un campo di battaglia tra nazioni avverse; essa esclusa dalla lotta.

2.      Non si sa bene che sia patria, se non quando la patria non è più.
Chi non ha altro scopo che sostentare la vita, chi non ha altri affetti che quegli familiari, suol restringere a questi la patria. Vi sono interessi che finiscono a una breve terra, perché s’ignora quanto i nostri interessi immediati siano congiunti a quelli lontani. Ma quanto lo spirito è nobile, più coltivata la mente, tanto più si allargano i nostri orizzonti.
L'amore della patria è insieme amore di gratitudine. Come non amare di speciale amore il cielo e la terra dove Dio ci volle artefici e contemplatori? Come non amare la terra delle nostre fatiche, delle nostre speranze? la sola in cui noi non ci sentiamo stranieri? Tutto il mondo noi amiamo, e sale la nostra gratitudine a Dio, ma ci è stata data una patria, tratto di unione con le altre patrie, e questa noi amiamo di speciale amore. Or sono pochi giorni, quando l'annunzio dell'armistizio si diffuse, rapido e improvviso, fin nelle più solitarie remote contrade; non sentiamo forse, nell'inevitabile gaudio, di essere tutti figliuoli d'una patria comune? E non ci eravamo forse sentiti fratelli nel dolore, mentre, atterriti dai bombardamenti, fuggitivi dalle città e dai villaggi, ci tenevamo lontani dalle vie, nelle campagne, e credevamo di salvar tutto, salvando la vita?

3.                      Scrivo per alleviare l'oppressione dello spirito, per un bisogno di conforto. Gli antichi han parlato di catarsi dell'arte. Il dolore della vita, fattosi forma e contemplato, cesserebbe dall'essere dolore: lo spirito ne sarebbe purificato ed elevato. L'arte veniva così ridotta a un incanto sonnifero, e con ciò stesso a una sorta di inganno verso il nostro dolore.
La catarsi, invece, è propria del pensiero, quando questo ricerchi e contempli le eterne verità e bellezze, e l'arte non è tale che per questo pensiero contemplatore. La mente vede allora gli avvenimenti del mondo nel gran quadro dei secoli, e le cose tutte nell'armonia che le sublima; la sua non è più visione che nasconda il dolore, ma contemplazione universale che lo comprende e lo eleva. La vera catarsi è nell'ascensione della mente a  Dio, nel quale sopravvive tutto ciò che muta. Quando i poeti pagani rappresentavano gli eventi trasfigurandoli, la loro visione rimaneva tuttavia angusta. Il mondo veduto davvero sub specie aeternitatis: ecco la catarsi.

4.                      Nella vita quotidiana l'uomo patisce sovente grandi o piccoli dolori, e finché è preso dalle particolari afflizioni, o anche soltanto dalle cure del vivere, difficilmente egli può distendere lo spirito, elevarsi col pensiero e col sentimento. Ma per poco che entri in considerazioni universali, si meraviglia egli stesso di scoprire un mondo nuovo, tanto più alto di quello in cui si vede giornalmente costretto.
D'altra parte le particolari afflizioni e cure, che la vita offre con tanta dovizia, gli sono grandemente necessarie, sia per l'acquisto delle virtù, che sarebbero altrimenti più appariscenti che reali, sia perché proprio esse lo incitano e spingono alle ascensioni dello spirito.


II.    L’ESODO

1.    I bombardamenti aerei, specie nelle città, sono davvero paurosi. La morte ti sopraggiunge con ali spaventose, ti cerca, mentre tu trepidi nell'attesa. Si avverte la potenza di una forza irresistibile e l'impotenza miserevole dell'uomo. È il terrore di una morte che viene non più dal caso o dall'errore, ma da un potere mostruoso, da una volontà cieca e inesorata.
Uno non si sente più sicuro in nessun luogo. Bisognerebbe vivere nelle caverne, ove è possibile. Gli uomini si sono fabbricati infatti dei rifugi sotterranei, o hanno fatto ricorso a quelli che v'erano.
Nelle campagne desolate, nelle valli nascoste, il pericolo è certo assai minore. Pure si teme. Non si sa mai l'intenzione di una forza nemica strapotente, quello che può accadere per un'occasione tanto vicina di sterminio. Ma a misura che la località è più prossima alle vie di comunicazione, ai posti militari, alle città; quando si prevede che la furia devastatrice vi giungerà prima o poi: allora il terrore si accresce con la stessa misura, ogni sosta diviene spaventosa.

2.       Il 27 agosto fu il primo bombardamento di Catanzaro. Ricordo distintamente il rumore del calar repentino degli apparecchi in picchiata; poi lo scoppio delle bombe misto al fracasso dei muri e dei tetti che si schiantavano, dei frantumi che si scontravano, degli spari della controaerea.  La stazione di Sala, a piè della città, era stata bombardata alcuni giorni avanti.
Il giorno stesso iniziò l'esodo della popolazione. Il terrore aveva invaso la città. Si erano sparse, e si ripetevano dall'uno all'altro, da famiglia a famiglia, le prime voci del disastro: i rioni colpiti, le case distrutte, i morti. Si facevano i nomi: alcuni erano tra i più noti della città, altri erano noti a una schiera più ristretta di amici, di familiari; le prime circostanze della morte, dei primi cadaveri riconosciuti o dissepolti, servivano di discorso ai sopravvissuti. Ma v'era un’ambascia, un'ansia che soverchiava ogni altro sentimento: l'ansia di fuggire, di mettere al sicuro la propria vita e la vita dei congiunti. La sciagura, il dolore, il raccapriccio, facevano che ciascuno fraternizzasse con ciascuno, amico con amico, conoscente con conoscente, uomo con uomo; ma il bisogno di provvedere a sé, alla famiglia, ai mezzi di fuga, di badare alle cose più urgenti da mettere in assetto e portar seco, di rifocillarsi in qualche modo prima di affrontare il viaggio, facevano d'altra parte che ognuno agisse come estraneo a ogni altro che non avesse la medesima meta o non potesse prestarsi a un vicendevole aiuto. La ricerca di vetture: carrozze, automobili, autocarri, carrette, bestie da soma, era diventata addirittura una mania. I pochi veicoli, ed erano ben pochi al paragone della richiesta, venivano subito presi d'assalto, occupati dai primi più fortunati o più esperti o più danarosi. Per i viaggi di pochi chilometri, dunque, si pretesero e si ebbero quattromila, cinquemila lire, e anche di più. Molti padroni di veicoli li riservavano per sé, incuranti di guadagno.
La più gran parte dei cittadini, senza considerare altro se non quello che pareva di maggior necessità nel viaggio e nell'esilio, si incamminavano a piedi: marito, moglie, figliuoli, i più piccoli in braccio, e portando ciascuno chi una valigia, chi un sacco, chi un involto, chi in mano, chi sulle spalle, chi in testa. Quelli che s'erano consultati sul dove andare, e non avevan trovato, finivano col partire all'avventura. Andavano a frotte, a gruppi, a famiglie.
La via di Fuori le Porte e la piazza adiacente, da cui si dipartono le strade verso i paesi di collina o montagna e verso la marina, e in ogni modo verso le aperte campagne, dove tendeva l'ansia di tutti, erano affollate di gente che s'agitava, che andava, che tornava, che si voltava fugacemente a salutare un parente, un amico, che chiedeva notizie a un conoscente o a un ignoto, se avessero mai vista la tal cosa o persona; di gente che si fermava ad aspettar altri, a consultarsi con altri, a ricercare con lo sguardo un qualche mezzo di trasporto, se mai fosse possibile d’incontrarne.
Ma i più andavano innanzi a passo lento e affrettato, portando seco i pochi bagagli che potevano; e a misura che la via s'addentrava nella campagna, lungi dalla città, rasserenavano lo spirito, quietavano alquanto la paura. Ma un altro scoramento cresceva, quello di vedersi alla ventura, lontani dalle proprie case, dispersi. Ed era in tutti i volti, insieme col timore, una mestizia e come una pietà di se stessi, nel vedersi così randagi e fuggiaschi, proni sotto il peso delle cose portate, dolenti di quelle che lasciavano. Era negli occhi un rimprovero verso i ritenuti autori di tanto strazio, un'accusa che l'immensità del dolore rendeva più afflitta che violenta.

3.                      L'esodo, cominciato col primo bombardamento, si continuò nei giorni successivi. Le autorità militari avevano instaurato un servizio di autocarri per la popolazione civile. La folla si accalcava nei luoghi di partenza, stava ad attendere, con le masserie disposte sulla via, si precipitava verso gli autocarri al loro arrivo, per caricarvi le robe, con quell'ordine che poteva essere consentito, montava su alla meglio e partiva. Ma v’era ancor sempre gente che s'avviava a piedi, portando materassi, indumenti, suppellettili d’ogni genere: gente che fuggiva non solo dalla città, ma dai borghi, dai casali, dalle campagne vicine. Ed era in quello spettacolo, e sopra di esso diffuso, quel senso cosmico della potenza della natura e del fato, contro cui nulla può valere l'uomo. Così quando Pompei giacque oppressa “dall'ignea forza”, anche la gente fuggiva con quel ch’era dato “di loro cose rapir”. Ma la pietà, il dolore, il terrore, vincevano per avventura la stessa immensità di quel senso cosmico e primigenio, e gli uomini ridotti, più che alla considerazione, all'esperienza e al sentimento della lor miseria e nullità, parevano non saper altro che lo spavento e lo stupore dei loro casi.
Nel giugno del 1940, quando le armate tedesche si rovesciarono sulle terre belghe e francesi, l'Italia era ancora lontana da tanta sciagura. Leggevamo con raccapriccio e pietà di quelle immense folle cittadine che fuggivano davanti al rapido avanzar del nemico: folle anch'esse di donne, vecchi, bambini, che l'enormità della calca travolgeva, disperdeva alle volte. E forse l'immaginazione dei lontani ingrandiva per un verso la sciagura. Da lungi tutto si vede in grande: i pericoli che sovrastano, la folla senza scampo. Ma chi si trova da presso, anzi chi è attore, vede per ogni luogo colpito altri cento che non lo sono, e che la stessa esiguità della persona umana non offre infine che un incerto bersaglio.

4.                      La popolazione di una città si compone di persone d'ogni ceto, grado, condizione. Ed ecco, innanzi alla morte, cessare ogni distinzione, come se mai non fosse stata. Ogni uomo si ritrovava uguale d'ogni altro. Che valevano più gli onori? gli stessi doni di natura: forza, bellezza salute? Tutti ugualmente miseri, ritornati quasi all'originaria nudità. La scienza, l'autorità, il danaro, tutto appariva vano, inutile fardello a chi li possedeva. E v’era in quella uguaglianza, rinata dalla paura e dalla morte, la naturale semplicità e umiltà dell'uomo, quando egli apparisce quello che veramente è. La verità dell'uomo è il suo nulla; perciò la semplicità e l'umiltà sono le sue proprie virtù. Nondimeno quel miserevole stato non impediva che talvolta, nelle soste dalla paura e dal travaglio, insorgesse, tra quegli infelici, l’avversione e l’insulto.
Eppure tra quella folla così varia, che il timore agguagliava, tra quei soldati che, sparsi per la campagna, partecipavano con noi a un medesimo pericolo, v’erano di quelli che in altri tempi avevano dimostrato il loro coraggio sui campi di battaglia e nelle civili contese. Ora, cessata ogni speranza di giovare alla patria, lo spavento invadeva tutti i petti, quasi a mostrare l'essenziale fragilità dell'uomo, e come non vi sia nato di donna che possa star fermo con l’animo contro qualunque pericolo. I più forti eserciti del mondo, i condottieri più temerari, si sono visti passare d'un tratto dal battagliare eroico alla fuga disperata. Quegli uomini medesimi che, nel mezzo di grandissimi pericoli e di atrocissime sofferenze, ostentano un animo invitto, potrebbero venir piegati da un timore più grande.

5.                      Ma l'amore eguaglia nella fortezza la morte: fortis est ut mors dilectio. Io penso con un conforto dell'anima a quel mattino del primo venerdì di settembre, in cui delle povere donne, consacrate al Cuor di Gesù, convennero nella piccola chiesa di Pontegrande. Esse figuravano in quel momento la generosità e il distacco dell'anima cristiana, ridonavano alla natura umana avvilita il senso della sua nobiltà, erano come il mite splendore d'una celeste favilla.
Da più giorni il villaggio era deserto, se non che al mattino la gente vi si avviava per il pane. La chiesa era officiata, per la messa, da un cappellano militare, giovane, alto, ossuto, e dal parroco. Vi assistevano ordinariamente due soldati per aiuto del celebrante, e appena qualche altra persona. Ma quel primo venerdì vi andarono da dieci a quindici donne e alcuni pochi uomini. A metà messa fu avvertito il rumore degli apparecchi nemici. Era usanza di buttarsi pei campi, lungi dalle vie, dietro difese di terra. Ma né il rombo pauroso dei motori, né poi i bombardamenti, benché vicinissimi, valsero a rimuovere quelle fedeli. Le mani del celebrante tremavano, tremavano quelle povere donne, man non una si mosse.

6.                      I tempi di grandi pericoli e calamità, di straordinari avvenimenti, sono anche quelli che rendono gli uomini più magnanimi, tranne casi eccezionali che inclinano gli animi piuttosto all'egoismo e alla ferocia. Quasi tutto ciò che nella vita ordinaria costituisce motivo di preoccupazione e di desiderio, nell'ora grave del pericolo perde la sua significanza. Cadono le ambizioni, si estinguono i rancori, si è paghi di nulla. Allora tornano a fiorire la bontà, la generosità, il coraggio.
I tempi perigliosi sono in tal modo, per qualche verso, i tempi migliori della vita, quelli della sua miglior giovinezza. E nella felicità dei giovani, e di tutti quelli che vivono nella giovinezza dello spirito, entra non poco la perigliosità del vivere la vita, tormentata ma splendida di ardimento e di speranza.
Questi tempi sono da paragonarsi per altro a quelli di straordinaria agiatezza e facilità di vivere, o che siano dovute alle grandi diffuse ricchezze di alcuni paesi, all'operosità e all'indole degli abitanti, o a speciali circostanze di tempo e di luogo: è in entrambi i tempi quasi una stessa libertà e grandezza.


III.  PONTEGRANDE

1.                      Pontegrande è un piccolo villaggio sopra Catanzaro: luogo pittoresco ed ameno, un tempo pieno di tranquillità. Ora, dalla via che l'attraversa, giunge rumore degli automezzi canadesi, seguiti a quelli italiani e tedeschi. Truppe si susseguono a truppe. Sostano qualche giorno per poi riprendere la marcia. Sono stranieri e vincitori, eppure lasciano, nel loro addio, come un rimpianto. L'ideale dei popoli non è forse quello dell'unione nella civiltà e nella pace?
Ci accorgiamo che l'Italia non rappresenta più nulla: è un paese occupato dallo straniero; in casa nostra è il nemico che impera.
Pure ricordo che quando giovinetto leggevo di paesi occupati dal nemico, provavo, insieme con l'errore che mi suscitava l'immagine di quelle occupazioni in terre da altri, un senso strano di godimento, non solo per lo spettacolo di forza, ma perché per quello stesso arresto della vita civile. Allora io non sapevo rendermi conto di questo sentimento, e neppure indagavo: mi piaceva. Ora parmi di comprendere. Mi piaceva allora, in quelle città così morte, in quelle vie risonanti a intervalli sotto i passi del nemico, mi piaceva quell'esteso silenzio, quell'assenza, o quasi, d'ogni vita cittadina, più alti d’ogni vicenda umana, onde l'uomo pareva tornasse all'antica madre: la natura. Era come una meditazione sulla piccolezza delle cose del mondo, un richiamo a quella realtà immensa del tutto, nel cui seno quasi nascostamente si svolgono le piccole nostre vicende. E non il silenzio soltanto, ma anche il rimbombo e il fragore delle armi, il tumulto e l'orrore della guerra, si dimostrano all'uomo come una forza assai di lui più possente, una realtà tremenda insieme e solenne. L'uomo vien tratto fuori dalla sua vita monotona, e ignoti abissi si schiudono alla sua mente, che subisce il fascino di quella solennità.

2.                      Qui, dalla loggia della villa che mio padre eresse per gli ozi estivi della famiglia, contemplo le alture che intorno fanno corona. Un gruppo pittoresco di casette rustiche (viene chiamato Piterà) attira dolcemente lo sguardo, e ha dinanzi una piccola valle precipite, e alle spalle, elevantesi in alto nel cielo, l'arcata linea d'un monte. Io venivo ragazzo a contemplare l'arco di questo monte, che destava nel mio spirito uno strano incanto.
E lo contemplo ora: vi sta sopra qualche nuvola candida, e in quest’ora stanca del meriggio rimane avvolto come un tempo nella solitudine e nel silenzio, nella pace invitta della natura. Ne feci una volta, in compagnia di mio fratello, l'ascesa, e serbo ancora il ricordo della vista fantastica immensa che di là godemmo.
Regna in quest'ora il silenzio, quasi la guerra non fosse.
Dio, quale contrasto! e quale mistero! Fu tra i campi, nel silenzio della natura, che noi cercammo tante volte rifugio al rumore del mondo. Silenzio che ci parve inviolabile. Eppure d'un tratto, dopo secoli forse, uomini venuti da lontani paesi, con loro strane armi, hanno rotto la pace di questi luoghi e posto il terrore tra gli abitanti fuggitivi.
In questo momento è ancora il trionfo della natura solitaria; ma fu, or non è molto, sopraffatta. La solitudine e la forza sono dunque qualità effimere della natura?
Qui il problema si sposta dalla natura all'uomo. Avviene che alla presenza della natura solitaria, veramente invitta nella sua sublimità, l'anima riacquista il senso smarrito dalla grandezza. Sola, senza contrasti, l'anima si purifica, si eleva; lo spirito pare dominatore della carne, superiore all'ira, al timore, a tutte le passioni avvilenti. Ma ecco, basta un ricordo, un rumore esterno, un'apprensione qualunque, per rompere quell'incanto. L'olimpicità dello spirito, piuttosto che una vera attualità, non è che una realtà fuggente, quasi non più che un desiderio. Quella virtù grande della sublimità che non teme bassure, della purità senza morali miserie, l'uomo l’attende sempre, ma non l'avrà da sé. O stoicismo!

3.                      Anche può parere strano che l'uomo, il quale trova  nella solitudine la sua maggior grandezza, sia nato nondimeno a vivere in società. Ma devesi considerare che le stesse miserie dell'umana società sono occasione di esercitare le virtù, che altrimenti isterilirebbero, e danno, per contrasto, il sentimento e il desiderio dell'elevazione; d'altra parte la società non esclude, anzi richiede, la solitudine dell'anima, vale a dire il possesso che l'anima ha di se stessa. E così anche la società ha le sue magnificenze e i suoi vantaggi.


IV.    LE ROVINE

1.                      Dalla nostra villa di Pontegrande a Catanzaro sono circa quattro km di strada nazionale. A distanza assai breve si nota l'opera di distruzione. Ora, lungo la strada, si nota un po' meno, perché i nostri soldati, dopo l'arrivo delle truppe canadesi, hanno in più punti sgombrato la via e riparato a qualche guasto. Ma chi scendeva, or sono pochi giorni, per la via quasi deserta a rivedere l'ancor più deserta città, non poteva non provare, alla vista di quelle rovine, un sentimento gravoso d'oppressione e di spavento. E insieme, in aperto contrasto, un senso segreto, quasi sublime, di serenità, in quel silenzio arcano, sotto il cielo e sopra i campi sfavillanti di luce, per i poggi e le valli ridenti di verde e di sole. E innanzi alla sacra maestà della natura, a quella pace solenne, più alta di ogni errore e di ogni terrore, innanzi alla purificazione e quasi sorta di gloria che il cielo conferiva alle rovine, quel contrasto poteva non parer tale. V’è infatti una redenzione da ogni rovina e da ogni dolore, ed è la sopravvivenza, nella stessa rovina e nello stesso dolore, di tutto ciò che piacque, o semplicemente fu. Sono il dolore e la morte che, nello spirito degli amanti, ricordano e quasi ridonano quello che un tempo ebbe specie di bellezza.
Ma v’è, accanto a questa, altra redenzione che ingentilisce le memorie. Le cose che furono e non sono, le cose che più non godremo, ora le amiamo e le pregiamo, quasi con una specie di pentimento per non averle prima abbastanza amate e pregiate. Così il pellegrino che scopre nuove terre, porta seco il rimpianto dei luoghi ridenti che, guardando, amò, e non poté farne sua stanza. E il fascino dell'arte antica, non dico quello dovuto all'arte, ma quello che emana dalla stessa antichità, è in parte nella pietà del tempo e delle cose che furono, in ciò che sono le cose d'un passato.
Così v’è in tutte le cose un'armonia che vince ogni contrasto, poiché tutto è splendore e memoria di bellezza. Nella Ginestra del Leopardi, dopo il richiamo incomparabilmente bello alla città che fu “donna dei mortali” e ai giardini e le città sepolte tra le piagge deserte del Vesuvio, come suonano falsi e strani, e in realtà poveri e inconseguenti, gli ultimi ironici versi della strofa:
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Quasi che più non fosse il senso di bellezza infinita che aveva suscitato la vista delle deserte piagge e la memoria delle antiche rovine; e quasi che all'umana gente quelle rive non dicessero che pianto e dolore, e non anco l’imperitura speranza dell'uomo.
2.                      Lungo la strada che da Pontegrande va a Catanzaro, era, nei primi giorni del mese, una vista  e un silenzio come di cimitero. Io scesi e risalii più volte quella strada nelle ore splendide e solenni del mattino e del meriggio. Sulla via e nelle adiacenze: macerie e sconvolgimenti e morte. Pietre e terra in mezzo alla via, portate dalla violenza delle esplosioni, rese più formidabili contro i muri di chiusura o di sostegno o i muretti dei ponti o contro ville e casette più lontane. Qua e là grandi buche prodotte direttamente dalla caduta e dallo scoppio delle bombe; e in alcuni punti, nei campi costeggianti la strada, il terreno sconvolto come se aratri possenti vi fossero passati sopra. E ti colpiva lo spettacolo dei pali inclinati o abbattuti, i fili del telegrafo e della luce penzolanti o ravvolti nella polvere, le rotaie del tram divelte in più tratti, contorte, gettate lontano.
Ma di là da queste rovine, ci s'avvedeva di ben maggiore schianto. Ci s'avvedeva, perché quelle non erano talora che l'estremo e  più debole danno, al limite di qualche vasta zona del tutto sconvolta o distrutta,  o dove lo sterminio s'era abbattuto sugli automezzi e le truppe assembrate. I tedeschi occupavano, prima dell'armistizio, tutto il piano su cui sorge il magnifico ospedale Luigi Razza, costruito nei tempi di pace per il ricovero e la cura dei poveri tubercolotici. In quel campo i tedeschi avevano collocato le loro macchine. Il campo fu coperto di bombe e di distruzione, e un lato del tubercolosario, adibito ai feriti di guerra, fu colpito. Si dice che in seguito alla caduta di una bomba in vicinanza, fosse stato, nei giorni precedenti, fatto sgomberare.

3.                      Catanzaro fu bombardata più volte. Le case, per la più parte così modeste, anzi povere e rustiche, su quelle viuzze strette, dove par che si stringano e si sostengano insieme, furono colpite senza discrezione.
I condotti dell’acqua e quelli del gas furono rotti in più punti; acqua scorreva da più parti lungo le vie. Camminare per questi luoghi, nei giorni in cui la città era vuotata da abitatori, era un raccapriccio e uno spavento. Per andare, bisognava passare sulle rovine; in altri luoghi era impossibile l'accesso. Giungeva di tanto in tanto, ora lontano, ora forte e vicino, il lezzo dei cadaveri. Il viandante spingeva guardingo e timoroso lo sguardo e il passo, tra quegli ammassi di pietre, di calcinacci, di legni e ferri contorti, tra quei rottami d'imposte defenestrate, di mobili massacrati, di cocci di vasellame e frantumi di ogni genere; tra quei tratti di via, dove mura pericolanti restavano ancora in piedi e mostravano i liberi vani delle porte e dei balconi; e si scorgevano, attraverso di quelli, travi distese obliquamente, soffitti pendenti, pavimenti sfondati. E dovunque penetrare, dall'alto, dal basso, dai lati, la piena luce del giorno. V'eran case derelitte che mostravano aperte al sole le intime segrete stanze, con le pareti dimezzate, coi mobili, piccoli ornamenti, quadri, gingilli da bimbi.
Una pietà ti stringe il cuore, pietà di quelle cose, pietà delle persone ignote che vissero in quelle mura. Chi contempla non sa fingersi che il loro dolore e il danno, non sa vederle che gentili, benefiche, amanti.
Quando il dolore della pietà ci stringono a uomini che mai non conoscemmo, allora quegli appariscono trasfigurati, quasi aureolati, di bontà e di mitezza. Noi le foggiamo, quelle figure, con il nostro amore.
I cadaveri erano sformati e non riconoscibili che dagli indumenti o da qualche segno singolare. Di molti non avanzavano che frammenti: il capo o una mano o un piede, o brandelli di carne impastati con la terra e la polvere.
Io vidi una volta, or son più anni, un uomo ancor giovane camminare per una via cittadina, e a un tratto cadere, rantolare e morire. L'aria cominciava ad imbrunire. Cinque, dieci passanti si avvicinarono al morto, lo circondarono. Acuivano lo sguardo per ravvisarlo. Fu acceso qualche cerino, e il riflesso di quella luce alterava ancora il colore e l'aspetto di quel viso. V'erano conoscenti e familiari, ma lo ravvisarono a stento. Un lieve cangiamento nel colore, nei tratti, la luce scarsa o falsa, sono sufficienti a rendere incerta la conoscenza d'un volto. La labilità della mente, che non ricostruisce mai appieno quel che l'occhio non vede, rende ancor più sospeso il giudizio. Si provò un senso nuovo d'angoscia: l'uomo sente che la conoscenza dell'umana figura è affidata a una materia mutevole o a una memoria incerta. Così passa la figura dell'uomo, senza che alcuno possa mai fermarla: evanescente e caduca come ogni cosa del mondo. La memoria di quelli che amammo e morirono suole affidarsi ai tratti di un marmo o d’una tela o d’una immagine fotografata. Ma il movimento, ma la stessa vita non può essere riprodotta, e quei tratti rigidi e sempre uguali restringono a poco a poco, se pur d'altra parte la mantengono, l'antica vivace immagine. Ogni figura d'umano sembiante è fuggitiva; così fuggitiva e incerta che, anche nell'ordinario corso della vita, una circostanza non ordinaria o un abbigliamento novello ci rende talvolta sospesi nella conoscenza d'un volto. E nondimeno tutta la nostra vita sociale, i nostri affetti, si fondano sulla memoria e la testimonianza di tali aspetti fuggevoli e incerti. Dove sono le immagini delle età passate? Noi non ricordiamo l'aspetto fiorente della nostra giovane età, né l'età fanciulla di quelli che ora sono giovani. Di gente innumerevole, che già vissero nei tempi andati, or non rimane traccia di memoria alcuna, né presso gli uomini, né tra le cose, come se mai non fossero state. E di tutte le memorie spente, di tutte le immagini svanite, dovrebbe dirsi che furono invano, ove non vivessero ancora nella mente di Dio, o non potessero venir ricomposte dalla potenza divina. Il dolore che ci opprime e la speranza che ci sorregge sono quasi il preconoscimento d’una vita più stabile.


V.   I  SEPOLCRI

1.
A mezza strada tra Catanzaro e Pontegrande, volto verso oriente, è il cimitero. Una via, che si congiunge alla principale, e si apre un po' al di sotto della chiesetta che chiamiamo Madonna de’ Cieli e di quello che fu sino a qualche anno addietro, prima che un incendio lo distruggesse, lasciandovi a ricordo le mura, il magnifico Seminario Pontificio Pio X: vi accede. Tutta la contrada che da Madonna de’ Cieli va al campo dei morti, è assai ridente e bella. Dalla spianata che ebbe già nome di Piazza d'armi, ed ora di Stadio militare, e che un altro recinto irriguardevolmente preclude alla vista del passeggero che segue la via del campo, dalla spianata verdeggiante per l’erba, ride intorno, per vasto giro, l'amenità d’una valle, e al di là dalla valle, spettacolo mirabile e immenso, triplice giogaia di monti, e di rincontro il mare, in uno sfolgorio di luci indescrivibile, quasi una gloria.

2.
Sotto questo cielo, un poco più in alto, è il campo dei morti. Nel mezzo è un viale di cipressi, alle cui ombre biancheggiano tombe marmoree. Mi piaceva un tempo di starmi tra quella pace, di vagare pei sentieri acciottolati, dove frusciavano le lucertole e i ramarri allo stridere dei miei passi; guardare le rose e i crisantemi tra le croci dei poveri, o le umili margherite, contemplare i monumenti di fastigio o di amore: piccoli templi, colonne spezzate, lastre di marmo con angioli, effigi scolpite o dipinte; e il monumento solenne a Fiorentino. La gloria degli uomini par nulla a chi la consideri in faccia alla morte: cogitanti vilescunt omnia. Ogni spirito grande accende d'amore per la sua grandezza, ma la morte del grande non può suscitare che il sentimento dell’Ecclesiaste dinanzi alla vanità del mondo.
E mi soffermavo davanti ai pochi fiori freschi e ai molti appassiti, posti accanto alle tombe; davanti alle ghirlande di ferro scolorate, ai coperchi rotti, ai loculi vuotati o frantumati. Le tombe meglio custodite hanno, oltre i fiori e i ritratti, le lampade accese, l’iscrizione leggibile. E m’indugiavo a leggere. V'erano nomi che mi ricordavano persone note, tempi vicini o dell'infanzia lontana. Ogni iscrizione è una breve biografia: il nome, la data, i luoghi, il mestiere, il carattere, i parenti, il dolore e il male che condusse alla morte. I vivi e i morti d'uno stesso sangue e d’uno stesso amore si presentano sullo scenario della mente quasi tenendosi per mano, come i personaggi alla chiusa d'una tragedia.
Lessi una volta d'un ricordo marmoreo,
CHE NON MAI DOLORE UGUALE DI ANIMA
AL MONDO ERESSE
E ricordo due tombe affiancate, di due donne gentili, nobili, colte, di terre lontane d’altra Italia, una madre e una figlia, sole senza congiunti, quasi straniere, in mezzo a noi. La figlia, venuta qui ad insegnare, vi venne con la sua sola parente, e, poi che questa morì, compose nella pace del sepolcro la salma materna. Partì poi per nuovi luoghi lontani, e lasciò le reliquie della madre; ma volle che un'altra tomba accanto a quella fosse approntata per il suo ritorno. E ritornò.

3.
Pietà ed oblio coprono le memorie dei defunti. I sepolcri racchiudono le ceneri dei buoni come dei cattivi, ma la morte sembra congiungere tutti ugualmente. Vi è come una purificazione della colpa. Chi già, nelle vie del mondo, si mostrò a noi avverso, o ci fu odioso a vedere, ora lo scorgiamo quasi penitente della sua vita, come se la realtà della morte lo avesse trasfigurato, e avesse cancellato nel dolore ogni colpa. Egli è ora quello che poteva essere e non fu: il mite, il generoso, l'amante; distende la sua mano amica.
Dinanzi alla pietà dei sepolcri, il mio animo ristette a lungo sospeso. Che è mai questa purificazione che opera la morte? Certo è anche un inganno del cuore. Colui che fece il male, e che morendo maledisse, che spregiò per il suo piacere l'amore, non può coronarsi con la corona di bontà. La redenzione non è che apparente. Essa appartiene alla morte e non alla vita, alle cose esteriori, all'immobilità, al silenzio, all'oblio.
Ma dai silenzi, ma dai sepolcri, parla la saggezza della morte: meglio la buona memoria, della cattiva rinomanza.
Ecco l'ammaestramento della morte. Dov’è più la durezza, il cipiglio altero, la violenza e la tracotanza, lo scherno empio, l'avarizia spietata, dove sono i vani pensieri del mondo? Ecco che la morte ha tutto disperso; sorgono dalle tombe le immagini trasfigurate degli uomini, nella pace e nella saggezza, quali noi avremmo voluto che fossero, quali noi vorremmo essere. E quelli sarebbero stati a noi cari, come noi saremmo cari alla memoria altrui.
Certo i cimiteri, nella mestizia delle tombe, ove il sole splende nella pace, e lo spirito ricrea umili immagini e miti, han una loro propria bellezza. All'anima par quasi d'essere sopra del mondo e dei suoi eventi. Noi ci avvediamo allora d’aver quasi ignorato tanti incanti segreti, che un leggero velo copriva, pressappoco come colui che vede per la prima volta lo spettacolo dell'aurora sorgente. E la tristezza che alcuno prova dopo aver visitato i sepolcri, non è sempre e solo tristezza di morte, ma anche delusione di un fascino che s’interrompe, tedio di ritornare tra il rumore del mondo, e sentire in sé ridestarsi i sensi usuali per breve ora sopiti.
Nondimeno questa pace di silenzio e della morte, benché giovi a coloro che, stanchi del mondo, intendono di elevare o sollevare il loro spirito, non giova però all'uomo se, troppo a lungo protratta, lo sottrae al suo debito di lavoro e di affanno.

4.
I campi adiacenti al cimitero, dove erano assembrati numerosi nostri automezzi, e il cimitero stesso, subirono la violenza dei bombardamenti. Si dice che i bombardieri inglesi, o americani, pensassero di colpire automezzi tedeschi. Molti furono gli sconvolgimenti e la strage; gravemente colpito fu anche il grande riformatorio di fronte a Piazza d'armi.
Lungo la via del campo, che il popolo devoto rifà ogni anno nel giorno dei morti, in quel novembre catanzarese così grato ai sensi, si vedono ancora delle buche, e in più d'un luogo alcune croci con ricordo di persone ignote ivi sepolte sotto le rovine. D'intorno, sparsamente, rottami e carcasse di camion, imbrattati di terra, o anneriti e a metà bruciacchiati dal fuoco. In qualche parte qualche fossa più grande, spettacolosa, che accolse nel precipizio qualche casetta o capanna militare. Nel principio della via, in congiunzione col rione Baracche, case diroccate o danneggiate. Vi sono ancora delle bombe inesplose. Una scoppiò mentre io parlavo con una povera donna che, dopo i giorni della fuga, era tornata ad abitare con una sua figlioletta la stanza terrena di un edificio che da quel lato non era stato gravemente colpito. La donna mi raccontava che i ladri le avevano portato via tutte le masserizie. In quel momento si udì lo scoppio della bomba, e ne tremò tutta la casa.

5.
Il cimitero fu colpito da nove bombe, alcune cadute in sui confini, altre nel mezzo. In due grandi fosse, prodotte dallo scoppio, furono seppellite le vittime, quasi tutti soldati. Una croce ricorda il luogo e il numero dei morti, e la data del seppellimento. Nient'altro.
La chiesa in fondo al viale di cipressi, dove una volta, adolescente, ascoltai una messa pei defunti, che mi parve interminabile, tra una ressa di persone che ti soffocava, in mezzo a quel senso diffuso d'oltretomba, pauroso al vivente, e che pure piaceva tanto alla mia fantasia; quella chiesa ora non è che macerie. La terra, ove riposano le ossa, o le ceneri, dei miei nonni materni, e d’un mio fratello, il primo, che portava il mio nome, e morì di tre anni e mezzo, così poco discosta dalla Chiesa, non fu toccata. A qualche metro dal recinto, in mezzo alla terra dei poveri, che hanno a memoria e contrassegno una croce di ferro, v’è come una voragine. Forse cadde ivi la bomba che distrusse la chiesa; forse, e più probabilmente, fu una bomba diversa. La pace della morte fu violata, e si videro in quello e in altri luoghi teschi, tibie e altre ossa allo scoperto.
Il viale dei cipressi ne fu per metà sconvolto. I monumenti sepolcrali che lo fiancheggiano, nobili e belli, che la pietà familiare e la carità patria avevano eretto a memoria di uomini e d'affetti e per indicare al passeggero uno strazio, una virtù, un amore, o per dimandare una prece, si vedono ora scoperchiati, o mezzo infranti, ricoperti di sassi e di terra. Alcuni di quei monumenti ricordavano, e ricordano ancora, antiche date, persone straniere, e non v’è chi più n’abbia memoria o custodisca con affetto di sangue le tombe. Ma la parola che ancora vive nel marmo commuove il passeggero, e l'arte che ritrasse un simbolo d'amore, o effigiò la sembianza d'un volto, lo invita a contemplare.



PARTE SECONDA


I.      PRIMAVERA

1.
Il fatto nuovo della primavera è il ritorno dell'uomo alla natura. L'inverno dalle ore grigie è finito, ché ovunque, nei palazzi, nelle officine, nei casolari, penetrano l'aria e la luce. L'orizzonte stesse più libero, più vasto. L'uomo, non più costretto dai rigori del verno, ha modo di godere più a lungo l’aria aperta, vada per le vie cittadine o per i liberi campi.
Al contatto della natura, lo spirito diviene agile, si eleva. Quelli che fantasticarono d'un ritorno dell'uomo alla vita semplice e primitiva dei campi, non conobbero certo i fini dell'umana società; e tuttavia l'uomo ha bisogno dei profondi richiami della natura. Come la vita insociale sarebbe la fine dell'umana vita, la degradazione dell'uomo all'animalità, così la vita, senza natura, diviene ben presto schiavitù dell'animo, aridità e morte dello spirito.

2.
Calendimaggio. La limpidezza del cielo ha, in questa primavera inoltrata, qualcosa dell'algore del verno. Piccole nuvole immote, presso l'orizzonte; soffi lievi dei venti. Sui monti azzurri lontani, sui piani verdeggianti da presso, si distende, mescolata di ombre, la luce del giorno. La brezza che trasvola porta seco l'effluvio d’ignote marine.
O giovinezza! Chi, al par di te, conosce i trepidi incanti della natura? Il segreto dei giovani cuori è il distacco dalle cure della terra, onde la loro propensione a ogni sentimento di bellezza. La fluidità del sangue, l'agilità delle membra, concorrono nel dare ai giovani quel senso di libertà, il libero senso della vita. Tutto sparisce e resta solo il gaudio dell'effondersi.
Qui ancora riposta la malia degl’inni delle nazioni, l'effetto dei canti guerrieri: nella libertà che supera e oblia, nell'ardimento che fa getto d'ogni cautela, in un dono di sé.
Quale ardore di libertà pervade allora la giovinezza!
Nei canti della patria non è pensiero d'affanno, e la stessa mestizia che li pervade, la nostalgia della terra nativa e della dolce madre, vanno congiunte con quella spensieratezza eroica che il sacrificio rende amabile.
Si ritenne che la vita valesse “solo a spregiarla”,
“Resta allor che ne’ perigli avvolta
Se stessa oblia”,
non comprese, sepolto nel dolore, che il far getto della vita, tra le armi e i pericoli, non sempre è dispregio, ma è sovente effetto d'amore che, nell'eccesso dell'ebbrezza, si ritrova libero.


II.   LA GUERRA

1.
V’ha nelle guerre, e più nelle più grandi, uno splendore di vita. La forza, la rapidità, la lotta, tutto risponde in qualche modo alle segrete tendenze dell'uomo, il cui corpo, fu scritto, seminatur in infermitate, surget in virtute. La gloria dell’epopea omerica, o quella delle saghe nordiche, è nella commistione di uomini e di dei, nel quasi pareggiamento della natura umana con la celeste.
Ma è l'amore ciò che dà al combattente la sua vera nobiltà, che gli fa lieve la fatica delle armi, e conforta di dolcezza la sua lontananza. Secondo l'umana superbia la guerra è il supremo valore; ma, per chi si sovviene del suo nulla, la guerra non può giustificarsi che in spirito di umiltà e di sacrifizio, e nessuna nefandezza vorrà offuscare la nobiltà ch’è nel far getto della vita.
Questo splendore che rifulge principalmente nelle guerre giuste, rifulge però, diciamo, in tutte le guerre: poiché anche nella ferocia umana, nell'empietà con cui talora le guerre si conducono, è il sentimento di una libertà potente e vittoriosa. La malvagità, d'altronde, può avere una sua propria magnificenza che esalta l'orgoglio, e lo spettacolo mirabile della guerra, in cui è mirabile lo stesso aspetto di malvagità, proviene pur sempre dall'eroismo che è misto persin tra gli orrori.
D'altra parte, che cosa noi condanniamo nelle guerre? Noi condanniamo proprio quello che toglie libertà allo spirito: l'odio, la parzialità, la violenza, la tirannia, l'inganno. Eroe vero è perciò chi muore degnamente; è, sopra ogni altro, l’innocente da colpa, testimonio d'amore.
Deve riporsi, tra gli effetti funesti della guerra, l'impedimento al vivere libero e civile. Gli agi che la civiltà comporta sono pur sempre mezzi e modi di libertà, ed essi vengono dispersi o scemati dalla guerra.
Tuttavia questa libertà dello spirito è generalmente più aspirazione che realtà, sorge nelle soste o nelle ore di oblio. Così avviene che molti affrontano con ardimento la morte, malgrado il naturale senso di timore, e nondimeno il loro eroismo si stanca alle lunghe nelle marce, nelle vigilie, nei timori: resta però a significare quella libertà e quella giovinezza eterna, cui l'uomo sospira.


2.
V’è una pace del mondo, che lo spirito torpido facilmente accetta: la pace negli agi, nell’assopimento e nell'oblio, nelle opere vane, nella fiacchezza stessa delle membra. Pace odiata dagli spiriti alacri, che vedono in quella avvilirsi il senso della vita. E ogni uomo, d'altronde, che giace sommerso nel torpore, geme e sospira nel suo segreto. Gli anni dell'adolescenza di alcuni, e talor dell'infanzia, si riempiono d’infinito tedio allo spettacolo del vivere comune, innanzi al trascorrere che par vano del tempo.
L'eccesso di desiderio e d'amore, cui contrasta il pondo della carne e la fuggevole apparenza delle cose, induce quel tedio che sembra arrestare il corso della vita, fa deserta l’immaginazione e incenerisce il fulgore della speranza.
La vera vita dell'uomo non è nella pace del mondo, ma sui campi del dolore e del sacrifizio. Come la vita perfetta che attendiamo è nell'ardore dell'amore, così la vita imperfetta che viviamo è nel dolore redento dall'amore.
È questo il mistero della felicità nel dolore: l'amore lo redime e lo sublima. Onde la vita dello spirito si pasce, senza contraddirsi, d’amore e di dolore, poiché nell'amore è la felicità e felice è il dolore congiunto con l'amore. Così le opere dell'umano dolore sono sovente opere di bellezza, che le circonda. E però, di fronte al piccolo mondo della fiacchezza umana, si vagheggia il mondo delle eroiche virtù. La stessa vita tranquilla non è, nei cuori buoni, un dissipamento, ma un raccoglimento e come un silenzio dell’anima. In questo silenzio è il loro sacrifizio, umile, ma diuturno.


III.      FANTASIA

1.
Nuove, orribili armi vengono sperimentate sui campi di battaglia, contro città popolose, recando morte e rovina.
L'orrore che siffatti ordigni suscitano nelle menti, non impedisce l'esultanza per trovati tanto mirabili, né la speranza di futuri vantaggi per l'uomo. Ogni maggior grado di potere, è un grado maggiore di libertà. Par quasi che l'uomo si trasferisca sopra un piano più alto, di maggior potenza e grandezza. Così gli sport, i diporti, le villeggiature, i viaggi intrapresi a scopo di diletto, divagazione o istruzione, sono piacevoli, non solo perché l'uomo vive allora come sottratto alle cure immediate della vita, ma anche perché gioisce nel sentimento della sua forza e libertà, mentre la varietà delle cose e della natura circostante da pascolo al suo intelletto e alla sua fantasia. Se non che le grandi invenzioni generalmente sono messe a servizio dello spirito mercantile, o dello spirito di vanità; onde l'uomo non gode appieno di quella libertà per se stessa.

2.
L'altro segreto piacere che danno le invenzioni, è che per esse si svela a noi la potenza della natura, si entra nel regno delle Madri. Lo spirito si rallegra nella scoperta di forze fino allora ignote. Quali invenzioni! Voci e onde che trascorrono le montagne, trasvolano i cieli, raccolte e inviate per ogni luogo, ordigni che rompono la pesantezza della materia; forze smisurate che piegano ai voleri dell'uomo.
Presso i popoli antichi le scienze e le invenzioni apparivano come sacre e divine; e i misteri pagani affascinavano l'uomo nel sentimento d’ignoti poteri. Ancora la fantasia si diletta dietro visioni di magica potenza.
Chi crea nella scienza nuovi portenti, si sente in qualche modo vicino alla potenza creatrice di Dio. E l'inventore, o lo scopritore, è, dinanzi alla sua opera, più felice e sorpreso di quel che non sia la madre al cospetto della sua creatura. La madre ammira rapita il figlio nato dalle sue viscere, ma, benché il suo oggetto sia più stupendo ogni altro, non è però il frutto di un'attività cosciente. Perciò la vera nobiltà della madre non è nel dare la vita al figlio, ma nell'amore onde lo cresce e educa. Lo scopritore, è vero, non sentirà mai nella sua opera un cuore che gli corrisponda, né una mente che lo comprenda, ma nondimeno altri cuori ed altre menti saranno da quella tocchi ed ameranno.

3.
Così il mondo della fantasia e del segno, che par vano all'età cadente, non vale già semplicemente a rifugio delle gravi cure della vita, e dei dolori che la vita comporta, ma per l'immagine, ch’esso rappresenta, d'una realtà più libera e grata.
Come i poemi fantastici danno alle menti un gaudio di libertà, così i poemi eroici e le tragedie conferiscono all'uomo un sentimento di solennità e di grandezza. Noi lamentiamo che i personaggi delle tragedie parlino altrimenti dagli uomini della vita reale, e soprattutto, nei riguardi delle opere liriche teatrali, ci pare inconveniente che altri canti nel dolore o che muoia cantando. Ma noi non consideriamo che la poesia e il canto sono tra le più veraci espressioni della nostra natura, e che i sentimenti che suscitano e da cui nascono, noi non sappiamo esprimerli, se non falsandoli, nel linguaggio usuale. Come dunque si tratta dei nostri sentimenti più genuini e riposti, così avviene che l'espressione della poesia e del canto è anche la più nobile e vera. Alcuno suole meravigliarsi che i più antichi documenti letterari siano in istile poetico, e tale forma d'espressione suole attribuirsi a diverse cagioni, come l'immaginazione dei primi popoli, la veemenza delle passioni, il fine mnemonico; ma la precipua cagione è sempre la poeticità essenziale della natura umana, l'essere questa in effetti più nobile di quel che non apparisca nell'ordinaria vita, o volgare o corrotta, degli uomini.
Quando l'eroe assumeva l'aspetto e la voce degl’immortali; quando, sulle scene dei teatri, si disvelava il mondo delle umane passioni; quando la povera figura umana veniva nobilitata col vestito, e il coturno greco ingrandiva il personaggio della tragedia; e quando ancora gli uomini fan pompa di uniformi vistose, e le regole del vivere civile impongono osservanze e cerimonie di vicendevole rispetto: ciò non era, e non è, soltanto vanità e miseria dell'uomo; o necessità e convenienza del buon vivere sociale, ma anche significazione di quella segreta dignità umana, che noi tanto spesso dimentichiamo, se non addirittura spregiamo, nella vita.

4.
Questa essenzialità splendida, eroica e poetica, dello spirito, s’appalesa nell'infanzia sognante e melanconica. La vergine freschezza di quell'età si dischiude trepida, e le ride intorno il mobile intreccio delle speranze e delle immagini.
Nei nostalgici canti che, nelle quiete sere, o nei freschi mattini, giungono dai campi o dalle città, il fanciullo ignaro intravede la figura d’un mondo d’incanto, ch’egli si promette di conoscere da vicino, quando sarà cresciuto negli anni. E’ invece il mondo che fallirà all'aspettativa del fanciullo, e nondimeno è quello che racchiude il senso profondo della vita.

5.
Chi contempla le reali figure che l'arte antica rappresentò, cui talora conferisce prestigio il silenzio dei campi, e la luce da venusti riflessi, si comunica allora al riguardante quel movimento ideale, e ne colora la fantasia. Godimento singolare di chi partecipa senza travaglio a un mondo di bellezza. Così nelle sale dei teatri o nei cinema, lo spettatore contempla infaticato le scene di vita e di morte. Quivi però non sempre è la vera bellezza dell'arte, nella sua libera idealità, ma piuttosto la comune volgar vita del mondo.
L'uomo e la figura, il contemplante e l'opera, non sono più che una cosa, e ciò che egli non ha creato, ma che la tela e il marmo pur rappresentano, ridonda in lui, e la materia inanimata ha vita nella sua mente. Così, nei vortici della danza, un solo è il ritmo delle membra e dell'animo. Leggere una poesia, mentre nell'aria vibrano i suoni d’una musica, trasfigura il sentimento dei versi, e rende alle volte sublimi anche i men belli. Vi sono perfino illusi amanti, cui il grato spettacolo della natura o il soffio dell'aprile, e talora la sola ebbrezza della vita, esaltano gli amorosi sensi e gli affetti; ma, cessato l'ardore e il miraggio, cede anche l'amore. In vero l'amore non è dato da un volto, né da una giovinezza, ma insieme dalla passione dell'animo e del sangue, che tutto traveste d'un uguale incanto.

6.
Anche prodigiosa è la musica. Essa è leggera, aerea, facile a insinuarsi, a effondersi, facilmente muove gli affetti. Ha la leggerezza dell'aria, onde solo il vento coi profumi vince il naturale incanto dei suoni. Volteggiano, innanzi alla mente, immagini indefinite di bellezza, amori e dolori, creati dalle qualità dei suoni e dalle loro movenze.
La musica, benché informata dall'uomo, è come un mondo mirabile ma straniero, che gli si libri innanzi. La composizione musicale deve infatti moltissimo alla qualità dei suoni, alla loro disposizione a intrecciarsi, rincorrersi, disperdersi. L'uomo trova una materia a ciò disposta, e l’effetto che ne proviene supera la sua arte. Così chi guida nella corsa un destriero, viene a un tempo trasportato da quello ch’egli pur governa e dirige. Simile effetto ha la danza. E similmente le fantasie, le volubili immagini, i sogni che si formano spontanei o quelli provocati da droghe, creano intorno a noi e dentro di noi, un mondo nuovo che ci trasporta e sorprende.
7.
Nei fumatori d'oppio, la stessa facilità onde le immagini si snodano, si svolgono, s’intrecciano, le rende grate e insieme impedisce che la mente si soffermi in ciò che non piace. D'altra parte, l'oppio, e in proporzioni minori il tabacco e il vino, agisce creando uno stato di euforia, dovuto, oltre che al rapido succedersi delle immagini e alla loro natura piacevole, alla facilità dei movimenti organici, conseguenti all'eccitamento dei centri. Da ciò anche, insieme con la liberazione dalla noia e dal dolore, un maggiore ardimento nei compiti e nelle imprese. Ma quella ebbrezza dei fumatori e bevitori ha sempre con sé una certa gravezza, dovuta all'effetto stesso dello stupefacente o del vino, che finisce con l'ottundere e rendere più pigri i sensi, e, in parte, dovuta al rammarico di vedersi forviati dalla vera vita.

8.
Non tutto è bello, e però non tutto è vero, nell'ebbrezza del vivere; ma è bello il vivere stesso, l'agevolezza, la libertà dei movimenti, tutti i piacevoli sensi che l'accompagnano. Anche nel libertino può parere amabile la libertà dello spirito, onde l'inganno di molti, ma non è amabile in lui l'avvilimento della natura umana, la ristrettezza delle aspirazioni, il servaggio di fronte alle passioni. L’ebbrezza e la voluttà sono per se stesse grate, ma il desiderio dell'uomo non può fermarsi entro l'ambito di piaceri che inaridiscono lo spirito, lo distolgono dalla meta, e, per poco che si protraggano, si trasformano in tedio e tristezza. Perciò non certo la vita fantastica o le ridenti immagini, per sé prese, possono soddisfar l'uomo. Lungi anzi da ciò, ogni vivere fantastico e immaginoso, a lungo andare, aduggia l'animo, che sente di smarrire, dietro l'irrealtà di un sogno, la realtà della vita. E l'uomo, invero, le sue più belle virtù non le può dimostrare che tra i rischi e le battaglie, non tra i campi immaginari, ove non è ostacolo alcuno. Così pure vi sono opere poetiche, certo splendide di stile e di immaginazione, ma che saziano per la loro accesa sensualità, o per lo stolto orgoglio di che si rivestono e fanno pompa.
Breve è il piacere, ma lunga l'aspirazione dell'uomo, e però ogni suo desiderio e voluttà tende ad elevarsi e spiritualizzarsi. Considerata in sé, una è la voluttà, una l'ebbrezza, se non che quella spirituale è più intima e piena. Se Dante  “per rendere artistico il paradiso”, lo fece umano, ciò fu invero perché la terra e il cielo hanno la medesima fonte di bellezza: Dio; sì che la bellezza terrena è anche bellezza celeste, seppure altro non fosse che una sola “favilla” di quella. L'estasi dei santi non è forse anch'essa voluttà, dove non l'anima quasi più agisce, ma Dio prende possesso dell'anima?


IV.     IL MISTICISMO

1.
La libertà cercarono quei filosofi e asceti indiani, che pretesero di immergere la loro vita  nell'ineffabile nirvana o nell'ineffabile braman, di là dalle cure e i desideri del mondo. Libertà che aveva un doppio pregio, perché, mentre rendeva sciolto lo spirito dai terreni attaccamenti, e però pronto e leggero, d'altra parte lo elevava in un mondo nuovo, mistico e immenso. Quando un senso di accoramento ci prende nel meditare la vita di quegli asceti, è perché noi ignoriamo quanto lo spirito di coloro fosse ardimentoso, eccelso; né sappiamo comprendere quanto essi amassero, più che la fuga dal dolore, la libertà del vivere.

2.
L'uomo anela a una vita ideale, cui non gli è dato di partecipare che in maniera d'ombra e d'enigma. E però, benché attore e spettatore di questo mondo, si ritrova come prigioniero ed esule. Questa testimonianza sua d'una vita superiormente ideale, e, d'altra parte, il suo stato d'oscurità e d’esilio, han fatto che egli errasse lungamente tra due errori opposti, quello di esaltarsi quale natura divina, o di essa partecipe, e quello di parere a se stesso del tutto vile e perfino illusorio e irreale. Così le prime filosofie oscillarono tra le sofistiche della negazione assoluta e il dogma dell'identificazione essenziale dell'uomo col supremo principio dell'essere. La filosofia indiana poté anzi armonizzare, in qualche sistema, questo duplice errore, e trovare nel nulla e nell'annientamento dell'uomo la sua stessa esaltazione, quando, scomparse le forme e le parvenze illusorie, restava tuttavia la divina ineffabile essenza. Ma poiché in questo misticismo è falsata la verità della condizione umana, e l'uomo costretto ad apparire, sopra le sue forze, divino: ecco che siffatta credenza porta la sua gravezza e il suo dolore.

3.
Anche l'ascetismo stoico ebbe per suo principio l'amore della libertà e della sublimazione. Ma anche la libertà stoica giaceva sotto il pondo della tristezza. Al tetro pessimismo di quelle età: alla vanità degli dei, alla fuggente vita, al caduco fulgore delle armi e della bellezza, lo storicismo, è vero, opponeva la saggezza dell'animo saldo contro i mali di fortuna, il disprezzo dei vani piaceri; e in questo scollamento dell'essere, era come il trionfo della libertà. Ma se l'anima stoica poteva gioire in quel trionfo, la rodeva pur sempre il sentimento dell’ineluttabile vanità del tutto, l'assenza di un mondo d'eterna bellezza, l'assenza di un Dio d'amore.

4.
E’ notabile nell'arte greco-romana il riflesso d'un contrasto simile; l'esistenza quasi di due specie di arti in una. L'una specie rappresentava la magnificenza dell'uomo e delle cose: i grandi templi, le statue ideali che portavano la segreta impronta di Dio, anche se Dio era non apertamente conosciuto, e invocato solo infiguratamente nei cuori. L'altra specie era nella delicata e tutta propria melanconia, espressa negli eroi e nei misteri delle stesse orge.
Così un velo di mestizia copriva le opere dell'arte antica, degli epici, dei tragici, dei filosofi. Melanconica è ogni bellezza pagana, triste l'Olimpo greco, tristi gli dei mitici, la cui sovrumana potenza altro non fu che un ampliamento dell'umana fralezza. Gli eroi si affacciavano sulla breve scena del mondo per ricadere tra le ombre pallide dell'Erebo. E il mondo vero, cui tendeva il rimpianto dell'uomo, si poteva indovinare nel dolore dei poeti, nelle non definite idealità dell'arte, nel misticismo proprio dell'età.

5.
Dove il misticismo pagano, naturale, panteista, pur nel suo fondo d'amore, si stanca alla fine nella vanità di dare all'anima, con il totale annullamento dei sensi, l'ebbrezza dell'infinità; nel misticismo cristiano, invece, l'anima ascetica, che si stima veramente nulla, e del suo nulla si compiace, trova il suo appoggio in Dio, realtà sostanziale. Invero è solo a quest'anima, resa veramente ignuda, che Dio si rivela; ed essa che giammai aveva appreso la gioia, che anche nei più dolci amori aveva provato il disinganno, resta meravigliata e stupita dinanzi all'arcana felicità che l’inonda. Siccome l'anima non è pienamente felice che nell'amore, poiché solo nell'amore è libera, così solo all'anima ascetica, all'anima rinunziataria, aperta, nella sua innocenza, a tutto l'amore, fu non pure promessa, ma data la beatitudine.
Anche il dolore è amato nell'ebbrezza dell'amore, giacché l'anima felice si stringe volentieri al dolore, per offrirsi in olocausto. Non ama ancora abbastanza, chi non elegge per l'amore il dolore.
Nella beatifica visione, quando l'anima non ritiene più nulla di sé, che non sia un'offerta a Dio, nel che è quell’annegamento di cui dicono i mistici, l'amore non è più congiunto col dolore, ove si eccettui una specie di trepidazione nell'ebbrezza. Perciò vi sono state anime amanti, cui parve più grato soffrire con Dio sulla terra, che godere con Dio nei cieli. Ma devesi considerare che, sebbene nella beatitudine celeste non si dia dolore, nondimeno quella beatitudine è piena, perché piena è l'offerta. Or il dolore serve sopra la terra perché l'anima, donandolo a Dio, gli faccia intero il dono di se stessa; ma là dove la volontà è già tutta donata, non è più necessario il dolore. Lo spogliamento e la rinunzia dell'anima sono interi, sì che l'anima ha la medesima tenerezza ed ebbrezza, come se offrisse già con l’amore tutto il dolore.



PARTE TERZA

I.    POPOLI

            1.                   
Protagonista della storia, l'uomo assiste allo svolgersi di eventi che lo sorpassano nei loro fini, nel loro corso, nel loro originario essere; che lo travolgono nella molteplicità del numero e dell'intreccio, nella mutevolezza delle forme. Di tutti i problemi che il pensiero dell'uomo si propone, di tutte le opere e gli istituti cui attende, quelli che riguardano la vita politica e civile sono sempre misteriosi e incerti. Essi contemplano non mere definizioni e teorie, non semplici ritrovati o creazioni di bellezza o di scienza, ma il giudizio del bene e del male, ma la valutazione, oltre il loro aspetto apparente e soggettivo, delle passioni e delle azioni.
Chi, tranne l'occhio di Dio, può leggere nei precordi? Vi sono, presso ogni popolo, troppe ingiustizie che egli ha favorito o promosso; vi è in tutte le società tanta eredità di colpe, tanto intrigo di passioni e di interessi, tanta disuguaglianza di concezioni e di valori, che nessun popolo o società può dirsi scevro di colpa.

2.       
L'indipendenza è il supremo bene d'un popolo. Ciò che l'uomo massimamente agogna è di svolgere e accrescere liberamente la sua vita. Egli avverte che non è vera vita se non quella che prende impulso in se stessa. Perciò la nostra avversione alla schiavitù è principalmente l'avversione alla vita torpida, che disperde e offusca ogni grandezza. E la cupezza che invade l'animo di chi si sofferma a riguardare sulle età barbare, suole generalmente aver cagione dal ritrovare presso gli uomini di quelle età, non il libero rigoglio dello spirito, ma passionalità cieca e violenta. In alcuni documenti storici, o poetici, come nei Nibelungi, è un miscuglio orrido e quasi incredibile di fede cristiana e di pagana ferocia. Gli agi della vita nella schiavitù, se pur si hanno, costituiscono certo un vantaggio; ma chi preferisce gli agi alla libertà, o non ha pensiero di essa, egli mostra di amarli non per quella qualsiasi libertà che anche gli agi conferiscono, bensì per il favore che danno al vizio e alla rilassatezza.
Ma non avvilisce soltanto il giogo della schiavitù. Quelli che amano la patria non già in odio alle altre patrie, ma le amano tutte, poiché in tutte scoprono una divina idea, guardano con animo triste non meno agli oppressi che agli oppressori, e un senso di pietà li accora. In un mondo nato per la libertà, e perché l'idea di Dio si svelasse, niente è più melanconico che vedere gli uomini smarriti nelle tenebre delle loro passioni, tradire se stessi e quell'idea. Giacché neanche gli oppressori sono liberi, essi che non amano l'uomo, né la libertà dell'uomo.
Se i popoli infelici sognano talora una confederazione di stati, è appunto perché l'anelito dell'uomo è verso un mondo più libero, più aperto. La grandezza di Roma antica, non dico nella realtà, ma nell'ideale (e quasi ogni realtà non è mai più che un tentativo verso l'ideale), fu non già nell'essere soggiogatrice di popoli, ma nell'aver dato ai popoli l'idea dell'unità e dell'universale uguaglianza.

3.       
Ma tutto il male del mondo non potrà contrastare alla somma di bene, per il cui trionfo il mondo fu creato. E la vittoria dell'uomo, come non è nel giogo dei vinti e nella tiepida pace, non è neppure nella distruzione del male, ma nella lotta, sì che la vittoria è già assicurata al lottatore. Noi lamentiamo a ragione le guerre, come le lamenta il cuore di Dio; noi lamentiamo gli odi fraterni e i delitti dei popoli; ma nulla noi abbiamo veramente a temere, se pure siam saldi con l'animo. Anche chi vive nell'oscuramento e nell'oppressione, sa bene che a ogni volontà dritta, innocente, è aperta, di fronte al male, fatta più bella nel risalto, la visione di un bene senza confini. Perciò avviene in tutte le età, nelle civili come nelle barbare, che l'umanità non è mai del tutto spenta, ed essa si rivela mirabilmente in quegli uomini straordinari che appariscono in ogni tempo e in ogni luogo.
Né, d'altronde, sappiamo quello che ci darà il domani. Pellegrini del tempo, ma ancorati al presente della nostra vita, poco scorgiamo oltre quello che ci sta dinanzi. Anche quando noi regoliamo le nostre azioni secondo una volontà di giustizia e di bene, e ci opponiamo a ogni avversa volontà di male, noi non sappiamo però né se la nostra volontà abbia a trionfare, né se, trionfando la volontà avversa, non sia proprio essa occasione di bene. E difficilmente noi distinguiamo ciò che in una medesima opera v’è misto di bene e di male. Se non sapessimo che i fili della storia, inestricabili all'uomo, sono nelle mani di Dio, nulla potremmo noi intendere del nostro cammino, né essa avrebbe più significato alcuno. Benché ogni guerra lasci dietro a sé quasi odi inestinguibili, è nondimeno possibile che dall'avvicinamento e contatto dei popoli, onde, nelle conflagrazioni universali, ogni luogo della terra diviene quasi il luogo di tutte le genti, siano vinte e superate le rigide barriere delle nazioni.

4.       
Molti credettero di rimediare ai mali della società con accorte e utopistiche riforme, e riportare la giustizia e la virtù sulla terra col solo ausilio di riforme sociali economiche. Ma il benessere sociale, che pure contribuisce, anzi è necessario fondamento alla bontà dei costumi e alla virtù dei popoli, vuol dire forse necessariamente virtù? S’ignora forse quante volte le ricchezze e la sapienza del mondo siano state causa di corruzione e di rovina? Ma i mali dell'uomo si possono in parte mitigare e correggere, non mai del tutto sopprimere. Sempre resteranno le passioni che l'uomo porta nel suo grembo, e lo fanno nemico di se stesso e d'altrui: orgoglio, odio, avarizia, libidine; sempre resteranno malattie, vecchiezza, morte.
Il fatalismo che corrode così gran parte dei romanzi e della letteratura moderna, dove si descrivono umane vicende senza più gioie, simile alla tetra fatalità che incalzava gli eroi dei nordici miti, esprime questa verità dell'umana miseria. E questa vita di miseria, di abiezione, di dolore, non la poterono redimere coloro che, chiusi nella propria tristezza, altro non seppero che descriverla, né sapranno redimerla le leggi e le provvidenze sociali. Solo l'amore si piega sull’abiezione dell'uomo e vi porta il suo balsamo, scende nelle bassure della società e vi porta la redenzione della speranza. E l'uomo apprende talvolta che può valere più il suo dolore che non le delizie del mondo: queste chiudono lo spirito entro angusti confini, quello reca l'ansia o l’amore dell'infinito. Infine ogni dolore va benedetto, per chi contempli i misteri creati e le bellezze della creatura universa.


II.    CASSINO

1.                   
In viaggio per Roma, ho potuto vedere gli immensi danni cagionati dalla guerra. Lungo la linea del treno erano vetture e motrici sconquassate, rimaste o rimesse sui binari, o rovesciati al suolo; altre ridotte alle armature, allo scheletro, o sparse variamente in rottami. Le stazioni generalmente distrutte. I casali, i borghi, le città devastate; le case, in tutto o in parte, crollate; abitati senza numero vuotati d’abitatori. Le mura solitarie rimaste in piedi ridestavano l'immagine di una vita che più non era, e resti che pur apparivano della passata magnificenza, rendevano più doloroso l'aspetto della miseria presente. Le rovine di Napoli, così bella, straziavan la vista. Cassino non era più, e intorno, il terreno e il dorso dei monti, già ricoperti fittamente di alberi, mostravano la faccia ignuda e bruciata. Dove la vita era un tempo agevole e lieta, ora il viaggiatore non iscopre che luoghi di mestizia, e lamenta le perdute ricchezze e i comodi viaggi.

2.                   
Spento è l'orrore sublime che già si sparse sopra quei luoghi; e l'abito ormai fatto a tali spettacoli, il caldo della stagione e le noie della via, non danno più che un senso d'accasciamento e d’oppressione.
La morte sola è rimasta trionfatrice. E in quel trionfo, quando i silenzi seguirono il fragore delle armi, che parve più la ferocia e la potenza degli uomini? La rovina ovunque disseminata appariva cosa più formidabile di quegli stessi che l'avevan prodotta. L'uomo si sente come schiacciato dai medesimi effetti che suscita. Scopritore e propulsore di forze a lui straniere, esistenti senza di lui e prima di lui, egli rimane soggiogato da quella potenza che lo sovrasta. Tutto ciò ch’è dominio dell'uomo è anche dominio sopra l'uomo. Egli non lo possiede talmente che quello non possa sfuggirgli e rivoltarglisi contro. La morte onnipresente, suscitata qual furia dall'uomo, minaccia di schiantarlo nella sua rapina. Senonché l'uomo suol passare ignaro tra i pericoli della morte, né vede l'alto mistero che lo circonda. Del resto la morte ci sovrasta da ogni dove e con ogni mezzo: pestilenze, carestie, cataclismi ci possono sopravvenire e sopravvengono in fatto inaspettati. E, d'altronde, chi può evitare la morte personale, che è per il singolo come la morte dell'universo?


III.    AFA

1.                   
L'aria, divenuta afosa, avvilisce i corpi nell'inerzia. È un effetto fisico; una specie di torpore prende le membra. La calma dei cieli si riflette nell'anima, come in acque stagnanti. E l'anima si lascia plasmare dalle forme esteriori. Immersa nella natura, ne partecipa.
La natura stessa perde lentamente la sua forza, si adagia nella sonnolenza. La noia è ora il sentimento della vanità delle opere e dell'essere, delle cose che si fanno e delle cose che non sono. S’inaridisce la fonte dei sogni e delle speranze. Un velo uguale si stende a nascondere la beltà delle cose. Solo la bellezza noi amiamo, ma essa, confusa nell'inerzia della natura, più non apparisce.

2.                   
Allo spettacolo dell'inerte natura, suole d'altra parte, corrispondere, specie nell'età giovane e florida, accanto alla più acuta sensualità, una brama e un ardore di vita, quasi una volontà di possesso e di dominio, che sembra agevolata dalle disposizioni e circostanze così personali come ambientali; onde perfino deboli donne, che i rigori del verno tenevano soggiogate e dimesse, escono ora con passo quasi baldanzoso. Il che un tempo mi muoveva al riso.
L'ebbrezza della luce, della vita, sono per la giovinezza un invito alla voluttà e al periglio, all'ardimento che non sa barriere. I poeti della voluttà e della volontà vittrice, si cullano in questo mare di sensualità; si sentono lievi e liberi. I loro canti lusingano gli animi inesperti. Ma chi dirà appieno la sconsolata tristezza di questi cantori? Usurpatori di una bellezza, di cui non fu loro concesso che uso razionale, essi si arrogano il dominio delle cose e dei valori, e creano a se stessi gli idoli di una nuova religione.

3.       
Talora quest'inerzia della natura, questa lentezza canicolare, anche l'eroe della bellezza e dell'ardimento, il giovane esteta, la subisce. L'azione si arresta, la natura sta immobile, come uno specchio d'acqua nel meriggio, senza vento. Dove sono i moti del cuore e le ansie? Le brame di dominio e di voluttà? In alcuni è la mera pace dei sensi addormentati; in altri sorge, su codesta pace, il sogno di una vita idillica. La pace sembra bastare alla vita; tutto ciò che contrasta a questa pace pare irrilevante, estraneo, lontano. Anche la legge morale, anche la religione. Queste richiedono, infatti, non solo l'attività, ma la virtù: la virtù che vigila e si sacrifica. E d'altra parte, esse perdono agli occhi di molti ogni attrattiva, ogni splendore, di fronte al fascino arcano di quel diffuso sensualismo. Così nelle notti lunari, nei meriggi estivi, l'amore pare incolpevole come la natura. E non è in fondo che la depressione dello spirito, la fiacchezza che si abbassa fino all'inerte vita e non più vigila sul mistero del mondo. Ma dal segreto, ma dal profondo, geme la coscienza umana e avverte che quell'innocenza è colpa, che in quella pace si cela l'inganno e la morte.


IV.     IL TEMPO

1.
Or son più anni dal primo bombardamento della città. Tutto pare sopravvivere a un modo. Lievi cambiamenti; ma le cose intorno, il cielo, la terra, sono rimasti immutati.
Solo il tempo è passato. Ma che è il tempo? Un tempo legato ai medesimi spettacoli, non è anch’esso il medesimo? Il tempo certo trascorre nelle vicende del mondo, ma quando l'uomo contempla non il nuovo aspetto delle cose, ma l'antico che pur sopravvive, ecco che il tempo non è trascorso. Risorge alla mente del pellegrino che preme le antiche vestigia, il tempo che fu, risorge al guardo del reduce la casa in cui nacque. Il tempo passò tra le terre straniere, ma non tra le mura paterne, dove sorride l'infanzia lontana. Così rivedendo dopo molti anni le grandi città che amò, l'uomo si meraviglia di ritrovare nelle vie, nelle piazze, quasi una stessa gioventù, gli uomini stessi di un tempo. Passano le generazioni, ma le generazioni restano; passano le figure del mondo, ma le figure sono. O immagine dell'eterno nel tempo! Anche nella morte di quelli che amammo, tutto intorno rimane come se quelli non fossero morti, sebbene il flusso della vita, il rumore del mondo, ci sembrino allora vicende lontane e straniere.

2.
L'uomo riguarda gli anni della giovinezza come agli anni migliori della vita. Eppure la nostra speranza non si esalta che al miraggio dell'avvenire. Perciò gioisce nel suo segreto l'anima che volge al terreno trasporto, e gli allettamenti della giovinezza che fu non danno, al ricordo, che il solo piacere della lor fine.
Solo i disperati dell'avvenire rivolgono l'animo al passato; il cui fascino invero non è nella memoria delle gioie, poiché tutte le gioie dell'uomo furono ben compassate, ma nel desiderio di quello che non fu goduto appieno e non fu appieno amato.
Ognuno, d'altra parte, vorrebbe rivivere la vita trascorsa, ove ciò non l’impedisse nelle sue speranze. La nostalgia del passato e l’ansia dell'avvenire si conciliano, infatti, per la mente che intende, nell'eterna vita. Certo non tutta la vita l'uomo vorrebbe rivivere, giacché vi sono in ciascuna vita inutili ore d'affanno; ma quante volte non vorrebbe ripetere la conoscenza di ore dolci e solenni che rappresentano quasi direi un futuro, di fronte al desolato presente.
Il nostro amore della vita non è infine un semplice attaccamento all'esistenza. Invero noi non vogliamo mancare alla vita, per non mancare all'amore. Le creature del nostro amore e del nostro dolore noi vorremmo poterle amare in eterno; offrire noi stessi a quelli che ci diedero il loro incanto; riscattare dal dolore tutte le creature sofferenti.

3.
Ci piace che le stagioni dell'anno simboleggiano le varie età dell'uomo. Ogni sinbolo piace alla fantasia. Noi raccogliamo intorno a un qualche obiettivo varie immagini e sensi, ed ecco che di quell'obiettivo ci facciamo un simbolo: simbolo di quella stessa realtà di cui lo rivestiamo. Così il fiore, simbolo di beltà, nulla direbbe all'anima, ove noi non avessimo circonfuso la sua figura di grati sensi e memorie.


V.    IL NATALE

1.
La pace del Natale rievoca quella dell'infanzia ignara: la pace dell'innocenza. Ed è la nascita di un fanciullo che ci rallegra.
Il fanciullo che Virgilio canta, non è certo il fanciullo divino; è nondimeno, nell'aspettazione dei cuori, come l'annunzio di quello. Fanciullo anch’esso eterno, che simboleggia alla sapienza umana, il mistero d'amore del mondo.
L'innocenza, al pari dell'umiltà, penetra i segreti del creato: niente le impedisce di sentire il legame che è tra la terra e il cielo. L'innocenza e la pace, quando prima furono nell'uomo, rivelarono a lui la primogenita bellezza. La colpa, che è il frastuono delle passioni, rompe quell'armonia e quella pace.

2.
La nascita di Gesù appare ben umile cosa. Egli nasce povero, in una stalla, con le infermità della carne.
Eppure la carne ha una sua propria nobiltà. Si corrompe, è vero, più di ogni altro elemento, ma per ciò stesso lo splendore della vita si congiunge naturalmente in lei. Essa non ha la rigidità della pietra, né la fluidità e informità dell'acqua; è molle ed elastica, sì che la vita vi si raccoglie e trasparisce nella sua mobilità.
La sensibilità e l'idea si congiungono nella carne, e questa partecipa dello sconfinato dell’anima. Ovunque si stende il pensiero dell'uomo, ivi si stende anche la sua carne: si adegua con la luce a innumerabili aspetti; si confonde con le risonanze e i colori della natura; è vaga e arcana come il riflesso della bellezza. L'occhio che, amando, la contempla, non vede in lei il breve spazio che occupa, ma il fascino che la traveste. La mente di chi, nella volta della Cappella Sistina, ritrasse le sembianze di Adamo, e scolpì nel marmo il Mosé, tremò d'amore dinanzi alla dignità della figura umana. Forse che con Adamo apparve la miseria della carne? Ma cos'era la carne in Adamo, se non mezzo diafano dello spirito? Il limo della terra divenne, al soffio di Dio, raggio e sorriso del mondo. O novità della creatura intellettuale corporea.
Questa dignità avvertì la sapienza dell'oriente, quando adeguò il valore dell'uomo non alle proporzioni della sua carne, ma alle profondità dell'universo.


3.
V’è tuttavia una carne che non ha spazio, carne rinserrata e avvilita, che manda il suo lezzo, come fiore marcito di cimitero. E’ la carne che non ha più spirito, che non ha maggiori confini della sua putredine, dei suoi mesti o foschi piaceri; dove non è più l'amore, ma solo l'invischiamento del senso; dove si spegne la stessa luce della bellezza corporea. Non è più carne, ma carname.
Nell'amor vero che nasce tra uomo e donna, non è la carne, ma la carne trasumanata che si ama. È il sentimento della spiritualità della carne, ciò che incanta i giovani cuori. L'attrattiva dei sessi viene sublimata in questo incanto. L'unione fisica si confonde con quella spirituale.
Nell'amore del tutto spirituale, la materialità della carne viene ancor più trascesa, fino a divenire tutta splendore, come Dante la raffigurò nel Paradiso.

                4.                   
Anche il dolore della carne è immenso come l'amore. Ovunque è il palpito della nostra vita mortale, il dolore e l'amore sono insieme congiunti. Perciò ogni umana poesia reca, con la sua bellezza, il fascino di morte e di dolore. Non la sola bellezza greca, ma anche il dolore dei greci eroi copre l'epopea omerica. Su tutte le plaghe della terra, che il dolore della carne commosse; ovunque uomini desiderarono dissolversi e ascendere in Dio: ivi l'amore della bellezza s’intrecciò col dolore.
Vi sono sulla terra, nel regno zoologico, creature che sembrano nate unicamente per la sofferenza e la morte; ma noi ignoriamo se il sentimento dell'esistenza e il soffio della vita universa non anneghino in esse ogni dolore. Ogni vita che emerge, e s'affaccia sul mare dell'essere, riceve, anche nel fuggevole istante, il segno e il sigillo dell’afflato divino. Perciò la vita di tutte le creature mortali vale il dolore e la morte che patiscono.


VI.   IL PENSIERO

1.
Rivedendo dopo gran tempo le case distrutte, le macerie ammontate, che non più ingombrano le strade, non si prova quel senso di terrore, di pietà, di desolazione, che ti colpiva nei primi giorni. Non sono che materia inerte, congerie di terra e di pietra. L'occhio le guarda senza soffermarsi. L'eco del dolore si è spento intorno a quello, come se mai la morte vi avesse sopra aleggiato.
Eppure anche le cose inerti, lontane, si ravvivano al soffio del pensiero. L'inerzia non può spegnere la vita, poiché dalla vita ogni cosa nacque. Il pensiero e la vita, che eternamente sono in Dio, e sono Dio, rivestono ogni cosa creata. Nate dalla luce del pensiero, che prima le vide, tutte le cose risplendono quando una mente le contempla. Ogni cosa ha i suoi richiami profondi, e la voce della natura inebria la giovinezza degli anni come la giovinezza dello spirito.

2.
Le recondite bellezze della natura, le sue forze inesauste, il senso e la primogenia freschezza delle cose, tutto sarebbe invano, ove non esistesse nessun pensiero contemplatore. L'uomo che sa il palpito delle cose, che ne possiede il segreto, è più sublime della natura, che per se stessa è cieca. Ovunque l'uomo apparisce, sulle vette o sulle marine, la natura serve quasi di sgabello ai suoi piedi. Vivente immagine di Dio, l'uomo possiede in se stesso il fascino che abbellisce la natura. E nondimeno egli la contempla con tremore.
Da questa arcana bellezza delle cose, sorge insieme l'amore, giacché la bellezza è per se stessa ispiratrice d'amore, e l'uomo, fatto contemplatore di questo mondo, ne diviene a un tempo l’amante.
È perciò poeta non solo colui che ha la potenza di rappresentare i moti del cuore, e l'eccelsa bellezza delle cose; ma anche chi semplicemente quella bellezza ama, e pur non vale ad esprimere. La forma, senza essere ancora espressa, vi è impressa, non data ma ricevuta. Anche la comprensione e l'ammirazione verso le opere grandi, di molti che pur non hanno alcuna maestria nell'arte, proviene dall'impressione che la forma di quelle comunica, e la stessa bellezza fa ufficio di maestro.


3.                   
Racccoglie l'uomo questa voce della natura, questo splendore del creato, e li racchiude nella sua arte. Sorgono i templi marmorei, i dipinti animati, e benché non siano che pietra e tela, pur tramandano un incanto possente. L'arte è il trionfo della vita sopra la morte, il senso del meraviglioso smarrito dietro il vivere comune, è la contemplazione dell'eterna bellezza che ravvolge ogni cosa del tempo.
L'opera dell'arte umana è in gran parte natura, opera di Dio. Nei monumenti architettonici, la vastità dello spazio, la materia adoperata, la solennità delle forme, non sono che natura. Anche nella musica, dove l'effetto naturale dei suoni ha sì gran parte, nella scultura, nella pittura, in ogni altra arte dell'uomo, è pur sempre la natura che fornisce la materia e l'ispirazione e il modello.

4.
L'uomo vi aggiunge l'umano tormento e la speranza. Chi, pellegrino d'amore, scoperse innanzi a sé i vasti anfiteatri, che forse l'orgoglio creò, ma dell'orgoglio più radicata e invitta la naturale brama di donare un'immagine di bellezza; e chi scoperse tempi incolonnati, che le età pagane eressero alla divinità ignota dei loro noti iddii; e quelli ove le età che furono di Cristo videro affratellati uomini diversi: non forse sentì in quelli trasfusi l'amore e il dolore dell'uomo?
L'opera dell'uomo è certo ben povera cosa al confronto della natura, opera di Dio. Pure di tutte le cose della natura, l'uomo è la più eccellente, sì che la natura sembra risplendere di più grata luce ove sosta il ricordo e vive la traccia dell’uomo. Fin l'arte del paesaggio, suppone l'uomo interprete e spettatore della natura. La sfinge dal volto umano, che il pellegrino incontra nelle terre d'Egitto, rende più sublime la natura circostante, e le rupi incavate dalla parola dell'uomo ravvivono le immani solitudini dell’India, come il canto del passeggero le estive notti lunari


VII.    LE NOTTI
  
1.
Come son belle le tue notti, o Signore!
Nelle estive notti lunari, all'ora tarda dei silenzi, tra la pace che pare eterna, sale e ride come una mite speranza nei cuori. La volta dei cieli non è più straniera, ma familiare, amica; l'anima vi si adagia come se quella fosse la sua sede.
Letizia dolce, nelle città marinare, tra il canto dei barcaioli, quando la mente ricrea il senso dell'amor primo e della prima vita, onde tutto è commosso il mondo.

2.
V'è però un altro aspetto delle notti.
Vi sono notti sconfortate, e pur solenni all'umano orgoglio, quando il tutto appare senza ragione: vanità immensa.
O disperate notti dai silenzi ignudi e in ogni parte cupe, nella stessa bellezza vane, notti della mia adolescenza, dove siete?
E avviene la sublimazione di quella vanità. I cuori che amano le notti dolorose trovano un loro incanto nel sentimento stesso delle cose che vaniscono, si rendono quasi infiniti di quella vanità infinita.
Ma quando, al disperato sentimento dell'uomo, creatore e amante d'una bellezza disperata, è dato quasi di sperimentare l'infinita beltà delle cose, allora l'antico mondo del dolore esce improvviso dalla sua mestizia, trasfigurato nella nuova realtà sostanziale.
L'anima, che s’esaltava nel dolore, comprende ora la povertà di quell'esaltazione. Ecco l'antico enigma della superbia: perché elevare sul nulla il grido della propria fierezza? E se noi amammo allora la libertà, solo ora la libertà acquista finalmente il suo pregio. La volontà, che amò espandersi verso un ignoto, selvaggio ideale di bellezza, ora soltanto si ritrova appieno, nella nuova onda di vita.
Per l'anima pagana l'oscurità delle notti ne accresce la tristezza e il mistero, e però il sole le rappresenta la vittoria. E nondimeno le albe splendide e i meriggi non esprimono per lei che una bellezza dispersa tra la desolazione e il vuoto. Il vero sole è Dio.


VIII.   IN IPSO

1.
Tutto a noi vien d'altronde. La nostra mente, il nostro essere, vengono da ignote profondità, di cui portano l'amore e il desiderio. Le cose e le idee che le involgono non sono creature del nostro spirito, ma dominatrici di esso, cui sorprendono e stupiscono.
In tutte le cose è come l'annunzio di quel Dio che le creò. È vero, solo l'effluvio ci giunge dell'infinito; nondimeno noi ci affacciamo alla sua soglia, e ne sentiamo il profondo richiamo. Anche coloro che fecero Dio un miraggio delle loro menti, non poterono del tutto sottrarsi all'ardore e al tormento della bellezza, che sono anch'essi un palpito dell'infinito. Chi amò gli splendori della natura e ascoltò le voci segrete delle cose non pensò mai che il mistero dell'universo si dissolvesse in qualche inganno della sua mente? E se pure il dubbio lo sfiorò, non è forse anche il dubbio, immanente mistero, che porta anch'esso il soffio dell'infinito? Ma le stesse irreali immagini della mente non sono forse sublimi cose, più grandi di essa mente che le possiede, anch’esse testimonianza d’una verità prima ed immota? E i sogni, queste alate creature delle notti, che alcuno concepì siccome immagini vane, non sono anch'essi i nati d’una realtà, che coi suoi moti li crea? Non trepida anche nei sogni l'anima nostra, e non si affaccia anche in essi il mistero del mondo?

2.
Né alla mente giunge falsata la conoscenza. Molti non seppero dare, nella loro sapienza, che la morte analisi delle cose, e la viva realtà ridussero a ignudo essere e nulla. Ignari filosofi del senso, oppressi dalla tristezza dei loro cuori, madre di sofismi, non videro nelle cose dell'universo, non videro negli astri e negli spazi del cielo, ove l'anima si disperde, che mutevoli e vane apparenze. Ma chi avvilì la materia fino a ritenere che la sua esistenza potesse concepirsi senza un pensiero creatore, quegli non seppe che per tutte le profondità e le vie dell'essere vige un’immanente idea, aperta alla mente di Dio che la creava, e aperta alla mente di tutte le creature che volgano a contemplarla. Perciò, quando la mente dell'uomo contempla i cieli e la terra e i lor moti, essa raccoglie non gli aspetti vani e fuggevoli, ma la realtà profonda delle cose. E se non coglie tutti i significati e gli aspetti, e varia il mondo secondo la diversità dei contemplanti e delle prospettive, nondimeno quei relativi aspetti sono sempre veraci e reali, poiché essi tutti riflettono qualcosa della realtà creata e si sforzano di dare nel loro insieme un'immagine dell'increata bellezza.


IX.  AURORE

1.
Lavoratori tra le macerie: vedo, in mezzo al sole, i mobili dorsi, i picconi e le pale lucenti. È una nuova vita che sorge dalla morte, oltre la morte.
E’ vana questa vita che avanza immemore della morte, e pur essa mortale? È la morte che s'affaccia sopra la vita, e la sommerge nella sua vanità? O è la vita che trionfa? Ma dunque è il trionfo d’una vita ignara, inconscia del suo stesso perire? Dov'è dunque il suo pregio?

2.
Splendore d'un mattino. Felicità dell'anima che s'inebria di luce.
L'anima può dunque sovrabbondare di gaudio? E non è dunque vero ch’essa non è mai paga d’alcuna cosa e che sempre ricerca, oltre i piaceri presenti, altri piaceri?

3.
Misteri immensi! La cui risoluzione non è dato comprendere che nel vincolo d'amore che unisce la vita e la morte. Si, quando la morte sopravvive nella memoria, nella speranza, quando l'animo non teme la morte, ma tutto scopre immortale, allora essa può bene non rimpiangere il perir delle cose, poiché queste s’intrecciano e sorreggono nell'eterna vita.
Quando l'età ingenua e innocente, nei moti della prima natura, sente l'amore della vita e ne scopre la riposta bellezza, è nel suo cuore la speranza e il velato riflesso d'un infinito bene.
Allora l'esistenza di tutta la creatura visibile appare giustificata dalla sua propria bellezza, come quella che meritava d'apparire al fulgore dei suoi soli e d’ogni mente che intende.
Ma quando l'anima non vede nulla oltre la creatura mortale, non sono certo gli interminati spazi dei cieli o gli splendori della terra che possono soddisfarla; anzi il dolore di tutte le anime amanti non è che il compianto di quella vana magnificenza.

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